C’è una certa differenza tra comunità e società, almeno questo è il mio sentire.
Non si tratta solo di una questione di dimensioni, dove il concetto di società solitamente comprende quello di comunità, ma soprattutto di intenti che portano a una identificazione.
Tutti noi abbiamo sperimentato l’appartenenza a una comunità a cominciare dalla famiglia per poi passare a una comunità più ampia come quella della nostra classe di scuola, alla comunità del gruppo delle nostre amicizie, della “compagnia”, come si chiamava una volta. Veri e propri luoghi simbolici frequentati da soggetti eterogenei accomunati da valori e intenti comuni.
Le amicizie, per esempio, nascono non solo da simpatie, ma anche e soprattutto da vere e proprie empatie che fanno sì che il legame tra due o più persone si rafforzi progressivamente fino a consolidarsi nel tempo, superando anche momenti e prove difficili. Durante il periodo adolescenziale, per esempio, la difficoltà di relazionarsi con il mondo degli adulti accomuna molti giovani e questa difficoltà genera un’empatia che crea un legame molto forte. Si comprende fino in fondo la difficoltà dell’amico perché è anche la nostra.
Così come le varie passioni comuni sono un altro tramite che rafforza la connessione tra le persone. Negli anni ’70 la musica era l’arteria principale attraverso la quale i giovani si connettevano e rafforzavano il loro legame. Ma anche l’interesse per la politica, per il mondo sociale, per lo sport o per il mondo spirituale sono elementi che favoriscono il senso di appartenenza a una comunità, piccola o grande che sia.
Chi mi segue sa che negli ultimi tempi ho scritto diversi articoli riguardo una comunità in particolare, Auroville. Quest’inverno vi ho trascorso due mesi per cercare di vivere dall’interno quell’esperienza. Proprio questo periodo mi ha fatto ricordare come ci si sente quando si vive nella “vera” condivisione.
Con questo termine intendo fare una certa distinzione tra le comunità reali, fisiche - dove si vive gomito a gomito con persone con le quali si condividono obiettivi e modi per raggiungerli, come anche le difficoltà che tali propositi comportano - e i gruppi digitali, come per esempio le chat. Sebbene anche queste ultime siano, comunque, una sorta di comune, sono solo un surrogato delle comunità reali.
Ad ogni modo quello che mi preme sottolineare ora è come vivere all’interno di un gruppo più o meno ristretto, con finalità e ideali condivisi crei una condizione mentale unica, direi ideale per il conseguimento degli obiettivi comuni e per l’esistenza stessa del gruppo.
Il filosofo Zen Chuang-tzu diceva: “Il saggio sta dove sta bene” e se sei in un luogo con persone che condividono il tuo motivo dell’essere lì, stai di sicuro meglio.
Svegliarsi in un luogo che hai scelto, impegnarti tutto il giorno con persone che senti non come colleghi di lavoro, ma come amici che sentono quello che senti tu, che sono lì con gli stessi tuoi obiettivi, adoperandovi insieme in attività finalizzate al conseguimento del risultato comune e condiviso, ti completa come individuo facendoti sentire soddisfatto della tua giornata, della tua vita. E, inoltre, non ti fa percepire il tuo impegno come un lavoro che sei in qualche modo obbligato a svolgere per conseguire un fine che ti sfugge.
Ciò che unisce, o può unire, persone diverse è il senso di appartenenza. Sentirsi unite ad altre persone che hanno gli stessi intenti, gli stessi interessi, gli stessi obbiettivi crea le giuste condizioni non solo per connettersi con loro, ma anche per progredire negli ambiti che ci uniscono a loro. Questi erano tra i motivi per cui una volta si era pensato alla creazione degli “ordini” professionali, delle gilde, delle corporazioni di arti e mestieri, delle confraternite, dei collegi: non solo per tutelare i loro appartenenti, ma per creare una rete di collegamenti tra loro che gli permettesse di scambiarsi le informazioni riguardanti la propria professione, per cooperare in modo da ampliare la personale conoscenza della materia crescendo professionalmente, fino a scambiarsi suggerimenti e tecniche per poter offrire un lavoro di qualità ai clienti, un lavoro di cui sentirsi orgogliosi.
Ancora oggi in Germania ci sono falegnami che seguono i dettami della prima gilda dei falegnami, Zimmermeister, fondata nel 1152 con lo scopo di sviluppare e sostenere la formazione professionale dei falegnami. E ancora oggi gli apprendisti, finita la scuola, scelgono di viaggiare per tre anni e un giorno, come accadeva tradizionalmente, con lo scopo di visitare paesi lontani, studiare metodi di lavorazione del legno e, al tempo stesso, conoscere le altre culture per un arricchimento personale e professionale, prima di tornare alla scuola e mostrare quanto imparato in modo da essere accettati, solo a quel punto, come falegnami.
Chi ha provato l’esperienza di partecipare a un seminario, di qualunque genere fosse, sa cosa significhi essere immerso costantemente in un determinato argomento, circondato da persone che, con lui o lei, condividono lo stesso interesse. Immancabilmente, durante queste esperienze, ci si arricchisce enormemente e si sente di aver progredito nella conoscenza dell’argomento trattato. Soprattutto, si è vissuta un’esperienza che ci ha accomunato agli altri partecipanti, ci siamo sentiti vicini a loro e si è creata una certa armonia.
Questo tipo di comunione ci fa provare una partecipazione e una condivisione che ci appagano; si avverte di aver vissuto la giornata pienamente, con intensità e questo ci rende soddisfatti.
Potete dire di vivere sentimenti simili nella nostra società? Vi sentite parte attiva di una comunità che ha degli scopi dichiarati e condivisi, dove tutti collaborano per il conseguimento di un fine comune?
Ci svegliamo in un luogo che, solitamente, non abbiamo scelto, ma siamo lì perché ci siamo nati e ci vive la nostra famiglia. Siamo quotidianamente impegnati in attività che raramente scegliamo, capiamo e condividiamo, ma più frequentemente, sono un misero ripiego a sogni e chimere giovanili. Questo è ciò che chiamiamo e consideriamo un “lavoro” - connotando negativamente il termine stesso - che condividiamo con colleghi che percepiamo come antagonisti, con i quali siamo in competizione e dai quali, solitamente, ci dobbiamo guardare perché non ci facciano le scarpe. L’unico fine condiviso è quello del guadagno economico.
Nella società odierna non si capisce dove si stia andando, se ci sia un obiettivo comune, quali siano le strategie per raggiungerlo, perché tutto questo viene delegato ad autorità che non si conoscono e che non ci conoscono. Forse loro hanno un quadro completo di ciò che si sta facendo, ma noi ne sappiamo poco o nulla. Qual è il proposito della nostra società? Anche solo riferendoci a quella italiana, senza allargare il quesito all’Occidente intero. Dove stiamo andando – o meglio, dove ci stanno portando – come ci stiamo andando e perché in quella direzione e non verso un’altra? Di queste cose non ne sappiamo nulla. Nulla di tutto ciò lo conosciamo né, di conseguenza, lo possiamo condividere.
Da questa condizione di incoscienza, discordanza e dissonanza derivano tutte le schizofrenie, le ansie, le paure, le dicotomie, le depressioni e lo stress dell’uomo del ventunesimo secolo.
Penso che non solo in piccole comunità possiamo sentirci realizzati per il conseguimento di un bene comune, ma che questo debba essere il fine della società stessa. Ci dovrebbe essere un progetto, un intento dichiarato e ampiamente condiviso. Progetto che dovrebbe essere perseguito da qualunque compagine politica venga designata alla guida del Paese, perché non si può correre il rischio che a ogni cambio di governo ne consegua un cambio dell’intera impostazione della società. Chi viene delegato per guidare il Paese dovrebbe far partecipi tutti i cittadini del progetto condiviso, farli sentire parte integrante del progetto stesso e creare i presupposti per la formazione di una sorta di “anima di gruppo”; tutti dovremmo essere coinvolti anche emotivamente nel sentirci indispensabili per la realizzazione dell’intento comune. Le gocce che formano l’oceano.
Questa è la mia idea di società, dove tutti ci sentiamo uniti nel conseguire un risultato comune, per il bene comune. In una società siffatta non c’è competizione, ma cooperazione. Mi direte che questa è utopia. Forse, ma non credo che esistano utopie, ma solo paure e limiti interiori che ci fanno percepire un’idea come irrealizzabile. Al contrario credo nella volontà di adoperarci per evolverci, cominciando da noi stessi, per allargare la nostra influenza in cerchi concentrici sempre più ampi, attraverso l’esempio. Credo che ognuno di noi sia in grado di operare un simile cambiamento prima in se stesso e poi allargando la sua sfera d’influenza sempre di più. Possiamo cominciare a fare molto per chi ci è vicino, per la nostra famiglia, per la nostra cerchia di amici, per il nostro quartiere, per il nostro piccolo paese. Sentirci parte di una comunità, darci obiettivi condivisi e fare di tutto per raggiungerli. Tanto sappiamo bene che l’importante non è il conseguimento di un fine, ma il percorso che ci potrebbe portare verso la meta.
Crediamoci, pensiamo a come potremmo cambiare il modo di intenderci, di vederci, di sentirci con i nostri vicini, con i nostri paesani, a quali sono le esigenze della nostra piccola comunità e proviamo a espandere questo modo di sentirci parte di una confraternita, nel senso letterale del termine, coinvolgendo tutti loro in un progetto che potrebbe essere utile per tutti.
Non mettiamoci in testa né di essere inutili né, tantomeno, di voler cambiare il mondo. Cominciamo a cambiare la nostra maniera di percepire il nostro essere in questo mondo, come ci sentiamo parte di una piccola comunità, il nostro rapportarci con gli altri; troviamo i punti in comune e non concentriamoci su ciò che ci divide. Pensiamoci come parte di un tutto che proprio nel sentirsi “tutto” trova il senso del suo esistere.
Forse questo potrebbe essere il metodo per avviare una trasformazione, una transizione che, partendo da noi stessi, potrebbe contagiare il mondo intero. Chissà?!