Oggi a Ravenna l’aria è nociva, quindi è meglio non respirare. Nella zona di Barcellona invece da quaranta mesi non piove e nei progetti di difesa c’è l’acquisto di acqua all’estero. Prevedo in un prossimo futuro -futuro, parola che inquieta, l’Angelus Novus di Benjamin insegna - guerre per l’aria respirabile - non proprio pulita perché noi poi ci adattiamo - e per l’acqua. Ieri all’Università di Padova una corona d’alloro per l’ingegnera Giulia Cecchettin che non c’è più, vittima di femminicidio ad opera dell’ex fidanzato; qui non lo nomino nemmeno. Femminicidio che per il coraggio della sorella Elena e del padre Gino ha riempito piazze rumorose a suon di chiavi e per un attimo si sono promesse iniziative per un’educazione scolastica più attenta ai sentimenti con l’intervento di esperti naturalmente e con la speranza che qualche cosa potesse cambiare. Invece niente di niente. Anzi i femminicidi hanno avuto un’ulteriore impennata, ma le ragazze coraggiose non stanno zitte, vogliono essere libere anche se la strada come è sempre stata sarà lunga e accidentata
Però noi siamo persone fortunate perché qui in Italia non c’è la guerra. Sulle cento guerre in atto che si moltiplicano a scacchiera, due stanno nei nostri pensieri, nelle nostre televisioni, nei nostri quotidiani, nelle nostre conversazioni. Io qui non le nomino nemmeno, perché ne ho già scritto (“Siamo ancora alle guerre puniche”, “Gianfranco Rosi. Notturno”, “Angelus Novus”, “La battaglia navale”, “Un mondo capovolto”, I cinque cavalieri dell’Apocalisse - meer.com)
La Pace non ha mai abitato questo mondo per la semplice ragione che agli uomini la guerra piace. Rappresenta infatti la visione globale del Patriarcato che da millenni applica la sua dannazione e trova ancora una volta nella guerra e nella distruzione la sua regione.
Carla Lonzi negli anni settanta scriveva -cito a memoria- “È da duemila anni che vi guardiamo e quello che abbiamo visto non ci piace per niente”.
Dati i tempi, chissà se scrivo , come sto scrivendo ora, che la scuola è pericolosa, non finisca in galera? Affermo che la scuola è pericolosa perché dà per assoluta una Storia che appartiene solo agli uomini. E inoltre questa storia “… è solo la propaganda di immani e crudeli macchinazioni… e in essa si deve imparare a non trovarvi conforto. …” (Aldo Gargani, La voce femminile).
Perché, noi tutt* studiamo una storia data per assoluta e invece appartiene solo agli uomini? E qui entrano in campo i giochi della mente, entra in campo il grande inganno. Bambine e ragazze continuano a studiare la loro assenza. Questo tipo d’istruzione, di conoscenza, di cultura crea danni enormi. Una visione parziale data per assoluta crea nella nostra mente devastazioni enormi.
Nell’ordine psicologico per la semplice ragione che gli studenti sono, nell’educazione scolastica gli unici soggetti presenti, può prendere forma un super ego che vede nell’altra la sconosciuta, colei che come pensiero e azione non esiste e quindi spetta a loro farsene carico - ci avviciniamo alla “cosa di mia proprietà”- e se la patria chiama, farsi contemporaneamente carnefici ed eroi. Nelle studenti, può prendere forma, invece il vuoto dell’assenza che disorienta e richiede un lavoro molto complicato per ricostruire il proprio esserci.
L’assoluto crea devastazioni della mente. Ne sono cosciente da quando, negli anni ‘80 insegnavo alle e agli studenti la storia delle donne. È da tanti decenni che le donne hanno ricostruito la loro storia e pubblicato libri: femministe, filosofe, storiche, studiose di ogni ordine e grado, ma questi testi non sono entrati nelle scuole primarie e secondarie come materia di studio. Si, in qualche testo scolastico sono presenti le storie di alcune donne eccezionali, ma prive della strada che tutte le altre donne hanno costruito prima e contemporaneamente a loro, per condurle fin lì.
Sono tante, e le porto con me anche in questa esperienza che mi vede impegnata, con la collaborazione della professoressa Alessandra Pagnoni e di due classi del Liceo Classico Dante Alighieri di Ravenna, alla realizzazione di un testo scolastico in grado di tracciare il millenario nomadismo delle ribelli e delle disubbidienti che ci hanno indicato e ci indicano la via da percorrere. Tra queste, seguiremo la giovane schiava che invita Pentesilea - e tutte e tutti noi - ad andare con lei nelle caverne presso lo Scamandro e mettere in atto le sue parole: "Tra uccidere e morire c'è una terza via, vivere".
Ora riporto parte del racconto “Herbaria” di Ilaria Bonaccorsi Gardini, perché rappresenta la voce femminile quando questa evoca il tempo e lo spazio in cui la scrittura prende corpo e si abbandona poi alla memoria come disarmante richiamo, come processo di ritrovamento di sé e delle altre attraverso uno stato di senso. Il testo sarà la traccia del nostro lavoro.
Da Herbaria:
“…L’emozione di quell’incontro con Mariella nel quale mi ha raccontato del codex Aniciae Julianae, della sua scoperta del Dioscoride, del valore di quel dono. Il suo racconto di quella vita, di Anicia e poi di Ildegarda. Come nel suo lavoro, nelle sue tavole botaniche, nelle sue parole, poesie... avesse sempre cercato quel coraggio di “non uniformarsi”. Di continuare a studiare, a donare, a rappresentare... mi ha mostrato tutte le sue tavole, le immagini del Dioscoride originale, lei stessa. Le ho chiesto come fosse vissuta, quanto fosse riuscita a condividere della sua ricerca. Quanto quella fosse stata veramente la sua vita. E nelle sue risposte, a mio modo, mi sono riconosciuta.
Nella sua “anormalità”, nella sua lontananza dal mondo quotidiano, forse anche nell’immensa solitudine di quella ricerca incessante mi sono riconosciuta. Nell’impossibilità di saper vivere, imparare a vivere in un altro modo. Nonostante gli sforzi. E lì, dopo averla riconosciuta, le ho accennato alla mia di ricerca, alla mia vita, a Sofia, a quello che spero per lei. A cosa vuol dire per me la Storia. Che cosa avevo cercato e pensato andando a studiare le fonti storiche e incappando spesso in donne “fuori” dalla norma, incapaci di uniformarsi al pensiero religioso di quei secoli, a quel credo che aveva sostituito con forza il “conosco”.
Donne che erano riuscite a costo della loro vita a rimanere fedeli alla propria ricerca d’identità, di autonomia, di autenticità, nonostante il potere religioso e culturale fosse ai tempi tutto maschile. E avevo scoperto che le radici dell’ideologia dell’inferiorità della donna sono già nella Bibbia: la donna non diversa, solo parte dell’uomo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.» (Genesi 1, 26). «Plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.» (Genesi 2,7). «Allora il signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.» (Genesi, 2, 21-22).
«Dio li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra.» (Genesi 1, 26-28). Dunque Adamo fu plasmato con la polvere della terra (da qui il nome: uomo, uomo terreno, terroso, o rosso), Eva invece fu generata da una sua costola. Eva “vivente, o che suscita la vita”, è donna sì ma intesa come “maschi-a”. Sin dai tempi dei tempi viene costruita una relazione essenziale: sia per origine che per finalità, la donna costituisce una unità con l’uomo. Nessuna diversità, è parte dell’uomo.
Una delle storie più vecchie del mondo inizia così. Ma non finisce “e vissero per sempre felici e contenti”. È arcinoto che Eva cercò la conoscenza, fu processata per questo con Adamo ed entrambi furono resi mortali. Alla cacciata dall’Eden si fa risalire l’idea del “peccato originale” che avrebbe marchiato per sempre il genere umano ed in particolare le donne. Sì perché loro vennero trasformate in ianua diaboli, nella porta del demonio. Nello strumento del demonio. L’unico modello possibile divenne la vergine Maria. L’unico ruolo possibile quello di madri e mogli. Ma le cose non andarono proprio così, nonostante tutta la macchina messa in moto. Perché studiando, cercando... si scopre tra le righe di codici sopravvissuti... che le donne per secoli furono portatrici di un pensiero diverso, o anche solo di un “modo di pensare” e agire diverso.
Fu Fabiola nel IV secolo, romana, a fondare il primo ospedale. In una società impoverita allo stremo, provata dalla continua instabilità, furono le donne a curare, a dispensare rimedi. E nessuno fino all’anno 1000 le ritenne pericolose. Nessuno pensò che “se potevano fare del bene, essere benefiche, potevano allo stesso tempo fare del male. Essere malefiche”. Questa pratica medica benevola, questa grande conoscenza delle erbe medicinali delle herbarie era diffusa e accettata sicuramente fino a dopo l’anno 1000. Solo nel secondo millennio venne trasformata dalla Chiesa in una generica “malvagità” esercitata dalle donne, a quel punto trasformate in fattucchiere, alleate del demonio. Tutte le donne che “pensano liberamente” divennero per il clero un pericolo, andavano individuate e distrutte.
Nel Malleus Maleficarum (1486), i due domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer teorizzarono la debolezza delle donne e l’inferiorità del loro intelletto. Queste sarebbero per natura predisposte a cedere alle tentazioni di Satana. I due inquisitori (sbagliando) sostengono che la parola femina (donna) deriva da fe minus (fede minore). Arrivati a quel punto era prevalsa la teoria, si era imposta l’immagine della donna ‘come maschio imperfetto’ e come abisso di perversioni e di impurità. L’era dei roghi delle streghe aveva raggiunto il suo culmine.
Ma in questi assurdi settecento anni durante i quali vennero trasformate nel male io ho incontrato molte donne, come Ildegarda e prima di lei, Anicia, che nonostante tutto sono riuscite a lasciar traccia della loro esistenza, cosa non scontata per quei tempi. Donne eccezionali. Nei testi delle leggi romano-barbariche l’herbaria, letteralmente la raccoglitrice, l’esperta di erbe, colei che viveva nelle campagne e che servendosi delle sue conoscenze botaniche, era ufficialmente la ‘curatrice’. Ed è interessante notare che non si incontra nelle fonti altomedievali il sostantivo maschile del termine.
E poi Trotula (e le sue mulieres Salernitanae) che rimane l’esempio più forte nei secoli del medioevo della donna colta, introdotta ai classici della medicina, ma anche capace di integrare le conoscenze teoriche con quelle delle levatrici e mulieres di tradizione locale, saracena o longobarda. Ildegarda di Bingen conosciuta per i suoi due trattati di medicina: il Liber simplicis medicinae e il Liber compositae medicinae (conosciuto come Causae et curae), Monna Agnese e le sue compagne e più avanti Rebecca Guarna ed altre ancora. Tutte donne che tentano di trasformare una prassi legata alla conoscenza e all’uso delle erbe medicinali in nuova teoria medica. Donne a quel punto ritenute pericolose per il loro modo non solo di curare ma anche di pensare.
Quando nel 1322 Jacoba Felicie de Alemanna, donna medico di circa trent’anni, fu denunciata e processata, perché operava senza poter esibire un diploma che non le era concesso di ottenere, dal momento che l’accesso alle prime università era riservato ai soli uomini, lei tentò con ogni mezzo di dimostrare che non era una maga, che applicava le cure che da secoli rientravano nella pratica medica: esame accurato delle urine e del polso, palpazione delle membra, osservazione al modo di fisici e medici, cura delle ulcere, piaghe e malattie interne.
Ma a nulla valse. Fu processata e scomunicata. Molte nel XIII e poi nel XIV secolo sono le emule di Jacoba: è certo, per esempio, che Luigi IX, Luigi il Santo e Margherita di Provenza si portarono dietro alla crociata una donna medico di nome Hersent. Ed è noto che lo stesso divieto colpì due note donne chirurgo: l’ebrea Johanna Belota e Margarete di Ipra. A conferma di tutto ciò solo un secolo dopo sempre Sprenger e Institor scriveranno «nessuno nuoce alla fede cattolica più delle ostetriche». Ogni medichessa può essere operatrice di magia, mediatrice del Demonio: «Dovrà ritenersi strega la persona che libera da maleficii e guarisce da malattie senza conoscere la medicina».
La donna che cura senza essere approvata (cioè senza laurea) merita la scomunica che a quel punto non è più sola esclusione dalla comunitas christiana, è eliminazione fisica col rogo. Il 1400 si apre e si chiude con i processi dei Tribunali d’Inquisizione, tra i quali quello a Matteuccia Francisci da Todi (1428), una guaritrice di campagna esperta in erbe e rimedi, bruciata viva dopo essere stata condotta sul luogo dell’esecuzione a cavallo di un asino, le mani legate e in testa una mitra.
Nel Livres des Métiers (scritto a Parigi tra il 1254 e il 1271) si erano elencati soltanto sei mestieri unicamente femminili su un centinaio: filatrice di seta, tessitrice di copricapo di seta, lavorante di tessuto di seta, confezionatrice di cappelli d'auria frisia o scarselle saracene. Mestieri di lusso per i quali erano necessarie “mani di fata”.
Tutte queste donne che della conoscenza avevano fatto la loro vita, che delle erbe avevano fatto scienza, che si erano nascoste, come Trotula, dietro al nome del proprio marito pur di non veder distrutte le proprie opere mediche... ecco tutte queste donne che attraverso scritti, immagini, versi, sogni, visioni... mi hanno ricordato la passione di Mariella, le sue esplorazioni, le sue immagini. E i miei tentativi di vita. E i miei sogni per Sofia”.
Ilaria Bonaccorsi Gardini, Herbaria, neroscarlatto, Edizioni dell’Altritalia, 2011
neroscarlatto è uscito in occasione di una mia mostra alla Manica Lunga della Biblioteca Classense di Ravenna. I Cataloghi non mi piacciono, quindi il quaderno contiene conversazioni e racconti di amiche e amici in tema con il mio lavoro. Ilaria Bonaccorsi Gardini è un’editrice. Si occupa della casa editrice CoconinoPress-Fandango che pubblica graphic Novel d’autore.
Nonostante quest'aria opaca che tende a cancellare desideri, autonomie, sogni, passioni, intelligenze, noi donne siamo qui, creiamo spazi e apriamo nuove vie senza dimenticare le donne che ci hanno precedute. Nel realizzarli siamo coscienti della nostra parzialità e consapevoli che lo studio della storia delle donne non risolverà tutti i problemi, ma da lì è necessario partire.