Il Circo Massimo (Circus Maximus) fu il più grande edificio romano, un monumento dalle dimensioni e dalla capacità tuttora ineguagliate. Fu il più grande edificio per spettacoli mai costruito dall’uomo (non a caso Maximus significa “il più grande”) e ancora oggi, sebbene non ne resti quasi nulla, la dimensione della valle entro cui venne costruito risulta impressionante. Una struttura eccezionale, che ben testimonia la passione sportiva degli antichi Romani.
Esso venne realizzato in quella che era la vallis Murcia, una valle naturale che divideva il Palatino dall’Aventino, il colle situato più a sud di Roma. Questa valle, che ancora oggi si configura come un lungo spazio pianeggiante che separa i due colli, nell’antichità era un importante asse di collegamento tra la zona immediatamente a ridosso del porto sul Tevere, con annesso il vicino mercato, e gli assi viari interni. L’occupazione e l’utilizzo costante della valle per le manifestazioni pubbliche della nuova comunità romana come i trionfi o i ludi, ovvero i giochi, spinse a disciplinare e organizzare questo spazio in maniera razionale.
Secondo la tradizione, fu Romolo il primo a organizzare gare di carri in onore del dio Conso, il cui altare era situato proprio qui. Poiché Conso era la divinità dei depositi del grano, che gli antichi Romani conservavano sottoterra, il suo altare era conseguentemente sotterraneo e veniva scoperto solo in occasione delle feste a lui dedicate, i Consualia. Sempre stando alla leggenda, fu proprio in occasione di una di queste feste che ebbe luogo il famoso Ratto delle Sabine – il quale, dunque, sembra essere avvenuto proprio laddove sorgerà il Circo Massimo. La prima installazione di un circo dove organizzare corse di carri si deve agli ultimi re etruschi di Roma e, forse, nello specifico, a Tarquinio Prisco. Inizialmente non c’erano le gradinate per gli spettatori e il pubblico trovava posto su sedili di legno.
Soltanto in epoca repubblicana si ebbe una prima monumentalizzazione delle antiche strutture dei Tarquini. Dopo i successivi lavori di restauro operati da Giulio Cesare e Augusto, il Circo venne ricostruito dopo il famoso incendio di Roma all’epoca di Nerone, nel 64 d.C., che divampò proprio dalle sue strutture. La ricostruzione che ne seguì aumentò considerevolmente la capacità della struttura che, quando venne completata, poteva ospitare fino a circa 225.000 persone, diventando così il più grande edificio per spettacoli mai realizzato dall’uomo. Un’ennesima ricostruzione si deve poi a Traiano (98-117 d.C.) ed è a quel periodo che appartengono i pochi resti del lato curvo dalla parte dell’attuale viale dell’Aventino. Le dimensioni raggiunte dalla struttura dovevano essere impressionanti: circa 600 metri di lunghezza, 140 di larghezza, e una spina di 340. La cavea (dove prendeva posto il pubblico) era formata da tre arcate che sorreggevano le gradinate. La facciata esterna era composta da tre ordini, e in quello inferiore (realizzato ad arcate) erano alloggiate moltissime botteghe.
Un calendario antico del 354 d.C. riporta le date ufficiali delle feste e di quando si svolgevano i vari tipi di giochi: un totale di 176 giorni! Quell’anno quasi un giorno su due era dedicato al divertimento. Di questi 176 giorni, 102 erano dedicati al teatro, 64 alle corse dei carri e 10 ai combattimenti dei gladiatori e agli spettacoli di caccia. Questo semplice dato ci dice quanto grande fosse la passione degli antichi Romani per le gare dei carri che si svolgevano al Circo Massimo e quanto importante fosse il ruolo svolto da questi intrattenimenti di massa nell’ottica del panem et circensem, “pane e giochi da circo” – ovvero quello che ogni buon imperatore doveva garantire alla popolazione romana per evitare sommosse.
Al di là della loro innegabile funzione propagandistica, la passione per questo tipo di spettacoli era fortissima. A questa irrefrenabile passione per i giochi, e in particolare per le corse dei carri, forse contribuiva anche la stessa struttura grandiosa del Circo Massimo, le cui gradinate erano lunghe circa un chilometro e mezzo. Sulla pista si svolgevano gare con i carri trainati da due o, più comunemente, quattro cavalli (rispettivamente bighe e quadrighe). Nell’antica Roma non esistevano le corse di cavalli montati come invece è in uso in tempi moderni. La gara iniziava quando il magistrato incaricato di dare il segnale di avvio agitava un panno bianco: solo allora i cavalli si precipitavano fuori dai box di partenza per coprire la distanza di circa 8,5 chilometri, ovvero sette giri completi di pista.
La parte più difficile della gara, come ben sapevano tanto gli aurighi quanto il pubblico, erano le curve a sinistra dei segnali di svolta chiamati metae (le curve erano solo verso sinistra dal momento che le gare si svolgevano in senso antiorario). Prendere le curve troppo strette, magari toccando anche la meta, significava quasi certamente essere scaraventati sulla pista e calpestati dai carri o dai cavalli degli altri aurighi, rischiando di ferirsi o addirittura, come accadeva spesso, di morire in pista provocando spettacolari incidenti; prenderle invece troppo larghe avrebbe comportato allungare il percorso e perdere qualche secondo prezioso a tutto vantaggio degli avversari. Gli aurighi, quindi, correvano gravi rischi ogni volta che scendevano in pista, ma erano ben ricompensati per la loro attività: come i più bravi calciatori di oggi, avevano ingaggi principeschi, e i migliori, considerati delle vere e proprie “star” del tempo, potevano diventare ricchissimi. La ricchezza che molti di loro potevano raggiungere non proveniva solo dagli ingaggi ma anche dal giro di scommesse che ruotavano intorno alle gare. Mentre, infatti, molti Romani all’inizio di una giornata di corse (che cominciavano presto la mattina e finivano prima che facesse buio) si godevano lo spettacolo della processione che ricordava l’origine cultuale dei giochi, la pompa circensis, altri scommettevano sull’andamento delle corse.
Le scommesse sui cavalli, così come sui gladiatori, erano una pratica normale in occasione dei giochi pubblici: subito dopo aver conosciuto il programma, si stabiliva una posta e l’atmosfera assordante che si creava al circo in occasione delle gare era in parte dovuta alla tensione degli spettatori in preda alla febbre delle scommesse. A esse, oltre al popolo, partecipavano anche gli imperatori, che non erano immuni dal tifo per questa o quella fazione in gara. Gli aurighi, infatti, non gareggiavano per se stessi ma per conto di una delle factiones, le “scuderie” del tempo che si distinguevano le une dalle altre per il colore ed erano quattro in tutto: c’erano i Bianchi, i Verdi, gli Azzurri e i Rossi – poi Domiziano aggiunse i Gialli e i Porpora. Ciascuna di esse non solo aveva i propri aurighi ma anche tutto il personale necessario al buon andamento delle gare come sellai, veterinari, allenatori, medici ecc.
Le scuderie erano società private con al vertice i domini factionum, responsabili non solo della direzione tecnica e amministrativa ma anche dell’organizzazione e dell’allestimento delle gare nel circo, oltre che dei cavalli e delle quotazioni degli aurighi. Riguardo a questi ultimi, i migliori erano molto spesso contesi a peso d’oro e passavano da una scuderia all’altra richiedendo ingaggi stellari – un po’ come accade oggi ai migliori calciatori, giocatori di basket o di altri sport professionisti, che cambiano squadra attratti da stipendi altissimi, bonus o contratti milionari. La stessa organizzazione che c’è oggi, ad esempio, intorno alle squadre di calcio, si poteva ravvisare, ovviamente con le dovute differenze, nelle scuderie di allora e il meccanismo era esattamente lo stesso.
Come apparivano gli aurighi durante le gare? Se si guarda il film Ben Hur si può avere un’idea, anche se nella pellicola si possono ravvisare molti errori storici. Gli aurighi avevano la testa protetta da un casco di cuoio e indossavano una tunica corta per non impedire il movimento. Le redini del carro, a differenza di quello che si vede in Ben Hur, non venivano tenute in mano ma giravano intorno alla vita dell’atleta in modo da assicurare una presa salda e non perdere mai il controllo dei cavalli. Se questo da un lato garantiva sicurezza ed efficacia della presa, dall’altro poteva rivelarsi molto pericoloso soprattutto nell’eventualità di un naufragium, ovvero del ribaltamento del carro. In quel caso, non particolarmente raro, l’auriga disponeva di un coltello con cui poteva tagliare le redini e liberarsi della presa. Sul carro, l’auriga teneva una posizione arretrata, a differenza di ciò che si vede in Ben Hur, dove invece appare proteso in avanti. Inoltre, i carri usati nel film sono quelli pesanti che venivano impiegati nelle parate o nei trionfi, mentre quelli usati nelle corse erano estremamente leggeri e avevano ruote piccole per non ribaltarsi durante le curve. La pista non era cosparsa di sabbia come comunemente si crede ma di una sorta di ghiaietta che presentava il vantaggio di non alzare polvere quando passavano i carri e consentiva un migliore drenaggio dell’acqua in caso di pioggia. Vinceva l’auriga che terminava per primo i sette giri previsti, e decretare il vincitore poteva non essere difficile, dal momento che spesso gli equipaggi perdevano considerevolmente terreno durante la gara oppure venivano eliminati, o si ribaltavano causando un naufragium, evento rappresentato spesso su rilievi e mosaici. Subito dopo che il vincitore aveva terminato la gara, ricevuto tutti gli onori dovuti per l’impresa e terminato il giro trionfale per godersi l’applauso dei suoi sostenitori, iniziava la gara successiva.
Quante gare si facevano al giorno? Dipende dal periodo storico considerato. Sappiamo che alla fine dell’epoca repubblicana, nel I secolo a.C., si organizzavano dieci o dodici gare al giorno, ma durante l’età imperiale questo numero venne incrementato moltissimo per arrivare a diverse decine di corse al giorno, una di seguito all’altra. A volte fra una gara e l’altra potevano esserci spettacoli di acrobati, atleti o cavallerizzi per intrattenere il pubblico durante la pausa, esattamente come accadeva anche al Colosseo fra uno spettacolo e l’altro.
Nella maggioranza dei casi gli aurighi erano di origine servile ma non era raro vedere anche rampolli di famiglie nobili e addirittura gli stessi imperatori, come nel caso di Nerone, che guidò un tiro a dieci cavalli in occasione dei giochi olimpici. Le fazioni per cui gli atleti gareggiavano avevano anche una sfumatura “politica” e il tifo poteva raggiungere livelli esasperanti che a volte sfociavano in scontri violenti. Non sono rari i casi di gare terminate al Circo Massimo con episodi di violenza da parte di una o l’altra tifoseria. Anche in questo caso, il tifo violento di oggi sembra avere un triste precedente in quello degli antichi Romani. Nella maggioranza dei casi però, fortunatamente, il tifo era “sano” e il pubblico supportava i propri beniamini con manifestazioni di giubilo, grida, eccitazione, ed era pervaso dai sentimenti più vari, come paura, speranza o tensione. Gli spettatori, e in particolar modo i tifosi più accaniti, si facevano dunque prendere da quello che gli antichi Romani chiamavano il furor circi, il “delirio del circo”, che colpiva indistintamente i più appassionati, facendo storcere il naso a chi invece, come Plinio il Giovane, considerava le corse un intrattenimento scialbo e monotono.
Il grande afflusso di persone ogniqualvolta vi erano gare determinò anche la destinazione commerciale del circo. Moltissime infatti erano le tabernae, i “negozi”, all’interno della struttura: stando alle dimensioni si può infatti calcolare che sulla galleria esterna ci fossero oltre cento locali a carattere commerciale, un dato illuminante per comprendere la grande capacità attrattiva di questo spazio pubblico anche quando non c’erano eventi. I negozi che vi si potevano trovare erano osterie, cambiavalute, lavanderie, venditori di merce varia, forni e lupanari – tutti esercizi commerciali che sopperivano alle varie necessità degli spettatori anche (ma non solo) durante gli spettacoli, inclusi i lupanari! Da questo punto di vista sono molte le analogie con i nostri moderni centri commerciali o gli stadi, nella cui realizzazione si tende a coniugare l’aspetto sportivo con quello commerciale e di svago. Se si considera questo aspetto, il Circo Massimo può essere definito non solo come il più grande impianto sportivo mai realizzato ma anche (con un termine ovviamente anacronistico) il più grande “centro commerciale” dell’antichità.
Oltre alle corse dei carri sappiamo che il Circo Massimo venne usato anche per altri eventi come le venationes, ovvero le cacce. L’introduzione delle venationes probabilmente va messa in relazione con le guerre d’espansione che portarono i Romani a contatto con paesi esotici e con i loro animali. In età imperiale esse erano organizzate prevalentemente all’interno del Colosseo ma molte cacce vennero allestite nel Circo Massimo per la maggiore disponibilità di spazio nella pista e la maggiore capienza (circa tre volte quella del Colosseo). La prima caccia di cui si ha notizia a Roma fu quella organizzata con gli elefanti nel 252 a.C., che furono così i primi animali esotici visti dai Romani di quel tempo: si svolse nel Circo Massimo e fu una lotta fra uomini armati di frecce ed elefanti intenti a sopravvivere. Quasi sessant’anni più tardi comparvero gli struzzi, ma bisognerà aspettare ancora qualche anno per vedere in scena i primi animali feroci. Siamo nel 186 a.C. e per la prima volta vennero cacciati, davanti agli occhi estasiati dei Romani, leoni e pantere. Nel 2 a.C., in occasione della dedica del tempio di Marte Ultore nel suo foro, Augusto organizzò due venationes, la prima delle quali con 260 leoni.
Quelle appena elencate furono solo alcune delle cacce organizzate all’interno del Circo Massimo nel corso della sua lunga storia, ma la domanda da porsi è: perché i Romani organizzavano spettacoli di caccia? La risposta sta nella loro funzione propagandistica. La classe dirigente dell’epoca voleva infatti dimostrare davanti a un folto pubblico come Roma fosse capace di sottomettere non solo il mondo degli uomini ma anche quello naturale, rappresentato dagli animali, e sottolineare in questo modo spettacolare il proprio potere e la propria forza. Inoltre, chi deteneva il potere sapeva perfettamente che questo tipo di spettacoli, se ben organizzati, poteva essere molto apprezzato dal pubblico sulle gradinate.
A quei tempi, infatti, le persone comuni generalmente non viaggiavano e difficilmente nel corso della vita avrebbero potuto vedere animali selvaggi e feroci nel loro habitat naturale. Il turismo come lo conosciamo oggi non esisteva, se non per pochi fortunati. A viaggiare erano soprattutto i patrizi, i mercanti, i corrieri, gli imperatori o chi era investito di missioni diplomatiche. Assistere agli spettacoli di caccia era dunque per buona parte della popolazione romana l’unica possibilità di vedere dal vivo animali che non avrebbero potuto vedere altrimenti. Anche per questo motivo le venationes erano uno spettacolo particolarmente amato dal pubblico e il Circo Massimo forniva lo spazio e la cornice ideale per godersi ampiamente un evento del genere. Oltre alle cacce, sappiamo inoltre che in questo grandioso complesso sportivo vennero organizzate anche delle naumachie, ovvero delle battaglie navali. Si inondava l’arena con l’acqua proveniente dal vicino Tevere e venivano simulati dei combattimenti navali durante i quali si affrontavano due squadre composte da prigionieri di guerra condannati a morte o da gladiatori. In tal modo si rievocava in maniera spettacolare davanti alla folla estasiata indimenticate battaglie avvenute in mare.