Fra il 1974 e l'anno successivo, la seconda rete radiofonica della RAI mandò in onda un programma dal titolo Le interviste impossibili, nel quale scrittori e personaggi della cultura italiana finsero di intervistare i fantasmi momentaneamente redivivi di persone vissute in un'altra epoca. Tra i vari intervistatori figurava anche Giorgio Manganelli, che poi raccolse i testi e li pubblicò dapprima con Rizzoli, nel volume A e B, e in seguito con Adelphi, stavolta utilizzando il titolo originario del programma. 1
Nel 1981, in occasione del centenario di Pinocchio, a Manganelli venne chiesto di realizzare qualcosa di analogo, almeno all'apparenza, giacché stavolta avrebbe dovuto dialogare non con lo spettro di un personaggio storico effettivamente esistito, ma con uno fra i personaggi del romanzo di Collodi. Così, nel luglio dello stesso anno, all'interno del programma televisivo Tam Tam andò in onda Conoscete veramente Mangiafoco?, per la regia di Mario Monicelli e l'interpretazione di Vittorio Gassman.
Fin qui utili pedanterie filologiche, oltre che doverose. Adesso, però, si può passare a ciò che più interessa, ossia la chiacchierata che Manganelli scelse di fare col celebre burattinaio. Ma perché proprio lui, fra i tanti?, potremmo chiederci ancor prima di affrontare i fasti e le derive di questa impraticabile conversazione. Una risposta ce la fornisce la figlia dello scrittore milanese, Lietta: «Anche se all’inizio finge di essere in dubbio, di non sapere chi scegliere, mio padre sa benissimo che finirà per intervistare l’unico personaggio a lui congeniale, Mangiafoco. Pinocchio non si può, è un mito e non si intervistano i miti. La bambina, fata, strega, maga è troppo madre perché osi avvicinarsi. Rimane l’orco, l’orco fallito».2
Nel breve filmato, in cui è lo stesso Manganelli a svolgere il ruolo di intervistatore, Mangiafuoco chiede subito, precauzionalmente, se l'irruzione nel mondo che gli è proprio avvenga per un preciso interesse nei suoi confronti o «per via di quel burattino magro, secco, senza barba».3 Rassicurato in tal senso, poiché soltanto di lui si cerca, del «terribile Mangiafoco», egli si anima improvvisamente al suono di questo appellativo, il cui utilizzo sembra inoltre giustificato dalla descrizione che del personaggio aveva fatto Collodi nel suo romanzo: «Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d'inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro, e con le mani faceva schioccare una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme».4
Ma il guizzo di Mangiafuoco, che per un attimo era parso accreditare l'idea di un'effettiva sua terribilità, lascia il posto quasi subito a un'amarezza inaspettata. Nell'animo del burattinaio appare una crepa, e a mostrarla è, innanzi tutto, l'allusione al famigerato «montone mezzo crudo». In uno degli episodi più ricordati del romanzo, Mangiafuoco, che inizialmente aveva espresso l'intenzione di utilizzare Pinocchio come legna per terminare la rosolatura della carne, impietosito dalla reazione del burattino, e poi dal suo racconto, decide di non sacrificarlo e di mangiare il montone cotto per metà. È il primo accenno – e dolorosissimo, benché velato di rassegnazione – al proprio status di uomo di teatro che, in quanto tale, è vincolato a un ruolo che gli è stato assegnato e a cui non può sottrarsi in alcun modo. L'intervistatore coglie a questo punto un'allusione dietro le parole di Mangiafuoco, e questi finisce per confessare la natura profonda della sua insoddisfazione:
Vede, io sono un orco fallito, o peggio, un orco che, pur avendo tutte le qualità di orco – dalla barba, agli occhi, al gusto per i cibi grevi, a una certa vocazione di mago –, io... io i bambini – i burattini – li faccio vivi. Un orco fallito resta pur sempre un orco, così come un tiranno che non ama la propria tirannia resta pur sempre un tiranno. Certo, saranno un orco e un tiranno infelici. Io sono un orco infelice. […] E lei non ha idea di quanti orchi finiscono dallo psicanalista.
Mangiafuoco, tuttavia, sul lettino dello psicanalista ci sta già, in un certo senso, perché, sulla spinta dei quesiti che gli rivolge il suo interlocutore, ha dato ormai la stura alle frustrazioni e alle ubbie annose che lo affliggono. D'altronde, stando a ciò che il folclore ci propone, un orco è propriamente un divoratore di bambini, mentre «l'orco Mangiafoco» è uno che rinuncia alla buona cottura della propria cena per salvare la vita a un burattino – destinato, come sappiamo, a diventare bambino al termine di un tortuoso percorso di formazione. «Ad ogni modo», conclude infatti dopo una tirata in cui aveva accennato al valore dell'infanzia, «io, come orco, sono il disonore delle favole». In Manganelli tutto fa sistema, dal momento che ha scritto molto e non ha sistematizzato nulla, ruotando, allo stesso tempo, sempre intorno ai medesimi argomenti, sui quali ha tracciato via via solchi indelebili e profondi. A rovistare in mezzo alla sua opera, quindi, non c'è mai da rimaner delusi. Risale a pochi anni prima di questo lavoro per la RAI – e con precisione al 1977 – una pubblicazione abbastanza singolare, intitolata programmaticamente Pinocchio: un libro parallelo. Ed equidistante lo è davvero, visto che il testo avanza fiancheggiando quello originale e fornendone ora chiarimenti ora rimescolii che intorbidano ancor più la narrazione. Inutile dire che la figura di Mangiafuoco vi trova un proprio spazio di rilievo, tanto più che sarà foriera di ulteriori sviluppi. Vale a dire che l'idea di questo burattinaio spaccato irrimediabilmente in due, persecutore potenziale ma, da ultimo, ineluttabile benefattore, era già contenuta in questo libro:
Come Orco non è attendibile: la vociaccia è messa assieme con l’aiuto di un grave raffreddore, la barba ora è scarabocchio, ora grembiale. Un orco fallito? Comunque, un Orco schizoide. […] E allora patisce una sorta di dicotomia. Orco deve esserlo, si sa, ma della sua parte d'Orco si servirà a beneficio dell'inconfessabile fondo di brav'uomo. Come orco non può decorosamente mendicare tenerezze; dovrà pertanto inventare un percorso sapientemente indiretto. Come Orco dà ordini terribili, gli ordini terribili generano suppliche, le suppliche gli consentono di concedere la grazia senza cessare di essere tirannico, la grazia concessa gli guadagna devozione ed evviva. Questo è il disegno astratto, ma in realtà egli finisce col credere un po' troppo a se stesso come Orco, e se ne turba e commuove. La sua terribilità straziante lo sconvolge, e lo fa starnutire, che è il suo modo di esibire, da orco di teatro, la sua commozione.5
Nel lavoro andato in onda qualche anno dopo, Manganelli ha però l'opportunità di dialogare con Mangiafuoco, e se quest'ultimo, alla mercé delle domande dell'intervistatore, era finito in precedenza per confessare le sue intime tribolazioni, lo scrittore, dal canto suo, trae spunti da questa astratta conversazione e amplia – ma potremmo anche dire amplifica – quel che nel Pinocchio del 1977 appariva soltanto in nuce. Se in questo primo libro veniva detto che «il mondo del Gran Teatro è inesauribilmente contraddittorio e in nessuno più elaboratamente contraddittorio che in Mangiafoco»,6 nell'opera successiva il fallimento del burattinaio è un fallimento esemplare, paradigmatico, è il destino di quanti, come lui, non sono stati o non sono tuttora in grado di soddisfare le regole del gioco della vita: «Un orco che fa il suo mestiere di orco, come vuole il destino», dice Gassman/Mangiafuoco, «è un essere spregevole, ripugnante, sanguinario […] ma rispetta le regole, a suo modo ha la coscienza a posto»; e lui al destino di orco non si assoggetta, ma solo perché precedentemente assoggettato al proprio ruolo teatrale, che oppone alla sua tirannia soltanto apparente, da palcoscenico, l'immodificabile tirannia del copione. Ed è a questo punto che Manganelli scava più a fondo, sebbene per brevi accenni: «Nelle sue parole c'è un conflitto che mi affascina, qualche cosa di sottile, come se lei non potesse essere quello che è se non come fallito».
L'agnizione è alle porte e allo scrittore non manca che di confessare quanto immagini di trovarsi inevitabilmente nei panni dell'orco fallito; e alla sorpresa di Mangiafuoco, che chiede di rimando, e con una certa ironia, come sia possibile che esistano due orchi falliti, Manganelli risponde allora – a sottolineare la natura emblematica e sostanzialmente esemplificativa del problematico burattinaio – «Non due, molti, moltissimi».
Note
1 Secondo i progetti di Manganelli, il volume si sarebbe dovuto concludere con una Intervista a Dio, ma questa venne rifiutata da entrambi gli editori e pubblicata autonomamente soltanto nel 2007 dall'editore Sedizioni.
2 Alessandra Pigliaru, La parola sediziosa, Intervista a Lietta Manganelli (consultabile integralmente qui).
3 I virgolettati privi di fonte provengono tutti dall'intervista andata in onda per la RAI.
4 Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, cap. X.
5 Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Milano, 2002, cit. pp. 67-68.
6 Ivi, cit. p. 70.