È il giugno del 1978 e la Nazionale Italiana sta disputando una delle finali dei Mondiali più seguite e ricordate della storia calcistica, contro i padroni di casa a Buenos Aires.
Ma mentre negli stadi si gioca e si festeggia, il governo militare argentino, in un ossimorico silenzio, sta compiendo efferati crimini contro l’umanità. Una strage cruda, terribile, nascosta all’opinione pubblica internazionale, operata facendo sparire letteralmente nel nulla i molti oppositori politici del regime. Più di trentamila, per la maggior parte giovani, furono sequestrati e imprigionati in veri e propri campi di concentramento, torturati, uccisi e fatti precipitare da aerei militari in mezzo all’oceano, nel cosiddetto ultimo volo della morte.
Almeno mille erano italiani: emigrati della prima o seconda generazione. Dimenticati, mai esistiti per le autorità diplomatiche italiane, totalmente indifferenti tranne che per pochissime eccezioni: una su tutte il console Enrico Calamai, che salvò la vita ad oltre 300 persone ma che, pochi mesi dopo, fu trasferito in quanto ritenuto di intralcio.
Si preferì guardare l’altro fronte, quello più conveniente: i militari argentini erano protetti dagli Stati Uniti, gli interessi economici delle multinazionali e dei governi europei potevano così andare avanti. Anche l’Unione Sovietica era vicina al regime militare sudamericano per un mero tornaconto. L’isolamento della popolazione argentina era quindi totale.
Il golpe di stato argentino, attuato la notte del 24 Marzo 1976 destituendo l'allora Presidente Isabel Martínez de Perón, ha fatto seguito a quello cileno, avvenuto appena due anni prima, con un piano pressoché comune: controllo dei civili e repressione degli oppositori affinché si potesse portare avanti un progetto di liberismo economico.
Sterminare i potenziali e possibili avversari politici era l’unico bersaglio della dittatura ed il metodo utilizzato è stato quello della scomparsa, quello della desaparición. In un paese dove anche chi sa finge di non sapere, nella completa oppressione della paura, solo un gruppo di madri ha avuto il coraggio di sfidare il regime e rompere uno spesso muro di silenzio innalzato sulle spalle dei loro figli.
Nell’Aprile del 1977 scendono in Plaza de Mayo a Buenos Aires, dove ha sede il palazzo presidenziale. All’inizio sono poche decine, ma settimana dopo settimana diventano centinaia. Non si fermano di fronte alle forze dell’ordine che le definiscono pazze, né tantomeno quando vengono torturate, subendo la stessa sorte dei figli. Sono loro le madri della Piazza di Maggio.
Ogni giovedì escono tanto dalle proprie case quanto dal loro privato dolore, per unirsi in una marcia silenziosa attorno l’obelisco della piazza. Portano sul capo un fazzoletto bianco su cui è inciso il nome dei figli scomparsi. Si battono perché non si dimentichi, perché tutta la verità venga allo scoperto, perché i colpevoli di questo massacro non restino impuniti, perché gli ideali in cui credevano i figli rimangano vividi, proseguendo un cammino che loro avevano iniziato ma che non hanno potuto terminare.
Franca Jarach, la figlia di Vera Vigevani Jarach - una delle principali attiviste de Las madres de la Plaza de Mayo, aveva appena diciotto anni quando venne catturata il 25 Giugno 1976 e condotta all’Esma, la Escuela de Mecánica de la Armada, riqualificata in un centro di detenzione per dissidenti e ribelli. La sua unica colpa era aver preso parte a dei movimenti studenteschi che si opponevano al regime totalitario.
I centri di detenzione clandestina erano più di trecento, la maggior parte di questi sorgevano nel mezzo di grandi insediamenti urbani. L’Esma era proprio nel centro di Buenos Aires e si trovava fisicamente sottoterra, in una sorta di sotterraneo. Qui, stipati l’uno sull’altro, i prigionieri venivano prima torturati, ammanettati e incappucciati, spesso con la musica a tutto volume per coprire le urla, mentre pochi metri più sopra, la vita continuava a scorrere nell’apparente normalità, e poi ammazzati con i voli della morte. Oltre a Franca, per questo ipogeo passarono migliaia di persone: uomini e donne, alcuni ragazzi poco più che adolescenti, tutti disumanizzati, numeri validi solo fino a che non veniva decisa la loro sorte. Caricati su di una camionetta diretta all’aeroporto militare e dopo un’ora di volo, i corpi sedati venivano gettati a mare. La stessa sorte per tutti.
I bersagli principali della dittatura militare, i pericolosi “terroristi” che i generali fecero sequestrare e uccidere, altro non erano che liceali, professori e studenti universitari, liberi pensatori attivi nel sociale nella lotta per l’alfabetizzazione dei meno abbienti. Nel settembre del 1976, prende vita uno degli episodi più cruenti: la Notte delle matite spezzate. Centinaia di studenti non ancora maggiorenni stavano dimostrando tra le vie della capitale contro l’abolizione del tesserino studentesco, che consentiva sconti su libri di testo e trasporti pubblici. Furono tutti sequestrati, sottoposti a disumane torture e, di nuovo, tutti uccisi.
Non solo adolescenti, le vittime secondarie furono i bambini e i neonati portati via dalle madri rapite e imprigionate. Dei cinquecento bambini riaffidati alle famiglie di militari, quasi un decennio dopo, solo novanta furono identificati e restituiti alle famiglie di origine.
Tra il 1976 e il 1983 – anno in cui terminò la dittatura – in Argentina un’intera generazione pensante fu sterminata. Giovani a metà dalle radici della loro terra: figli equamente divisi tra il boom delle correnti letterarie e culturali latinoamericane (da Cortàzar a Borges, passando per García Márquez) e le dittature militari dilaganti e opprimenti.
Dopo il 1983, in Argentina si fecero inizialmente dei processi contro i militari che portarono alla condanna delle giunte militari nel Dicembre del 1985. Successivamente, dopo il fallimento delle stesse, il neo-eletto presidente Alfonsìn, fece varare una serie di leggi che consentirono ai ranghi medio-bassi dell’esercito di rimanere impuniti. L’anno successivo vennero condannati solo sette generali e ammiragli di più alto rango. Trentamila omicidi a fronte di sette condanne. Un vero e proprio genocidio. L’indifferenza europea però terminò dinanzi a questi numeri: numerosi paesi europei aprirono diversi procedimenti penali per tutelare i propri concittadini emigrati. Dal 2003 la situazione in Argentina è mutata, l’impunità è stata annullata e, finalmente, si è proceduto e si sta procedendo a processare i criminali militari.
“Solo chi pensa può comprendere che serve un cambiamento nel mondo, pertanto si può affermare che pensare è un fatto rivoluzionario". Vera Vigevani Jarach, ad oggi, lotta ancora per la giustizia di sua figlia Franca, e di tutta una generazione che non ha avuto il diritto di pensare.