Eleonora Duse (1858-1924). Una delle più grandi attrici di tutti i tempi, ricordata insieme a talenti quali Ellen Terry e Sarah Bernhardt, rimane una creatura – a tratti – misteriosa ed impenetrabile. Tradizionale ed innovativa al contempo, artefice e capostipite del teatro contemporaneo, ne fece un’esperienza sensoriale ed esistenziale unica per gli spettatori. Un nuovo saggio, a cura di Mirella Schino, docente di discipline dello spettacolo e curatrice di numerosi volumi in merito, illustra il percorso umano ed artistico della “Divina” da nuove angolazioni, restituendo al lettore un ritratto inedito ed appassionante, di cui espone la genesi nella nostra intervista.
Partirei col chiederle cosa comporta, a cento anni dalla scomparsa, occuparsi di Eleonora Duse in modo così capillare? Com’è nata l’opera, rispetto ai suoi precedenti lavori in merito?
Questo libro è uno dei figli del Covid: fare lezione da remoto ai miei studenti era molto difficile, per me, e sicuramente lo era anche per loro. Ho deciso di concentrarmi sulla Duse perché è un personaggio così affascinante, speravo potesse distrarli dalla clausura forzata. Ho cominciato a mostrare fotografie, perché so che adesso, per i giovani, le immagini sono una porta d’accesso privilegiata. E così lentamente ho trovato che potevano esserci modi di lavorare sulla Duse un po’ diversi da quelli che avevo già usato. Nuove strade, nuovi documenti. Il Covid è stato un periodo terribile, ma ha anche regalato un tempo di lavoro molto superiore al normale. Ne ho approfittato. Poi, dopo, quando archivi e biblioteche si sono riaperte alla normalità, ho potuto fare ulteriori ricerche. È stato un lavoro lungo, che veniva a depositarsi sulle mie conoscenze precedenti: mi sono occupata di molti argomenti, ma la Duse mi accompagna, a ondate, da più di trent’anni.
Come si è mossa, questa volta, dal punto di vista delle ricerche e cosa spera tragga il lettore a proposito della persona Duse e dei suoi tanti personaggi?
Avevo una spinta particolare: quello che mi ha indotta a scrivere di nuovo su questa artista così famosa è stata soprattutto la ricerca del suo punto di vista. Quali erano i bisogni, le necessità, le ferite della Duse? Cosa voleva dal teatro? Mi sono resa conto del fatto che, per quanto si sia scritto moltissimo su di lei, ci si è occupati quasi sempre o della sua vita privata o del modo in cui appariva in scena. Del resto, è comprensibile: non era il tipo di artista che esplicitasse un progetto. Bisogna andare a caccia di indizi, cercare di capire le sue strategie, cercare di non sovra-interpretarla, ma anche di non trascurare segni chiari. È difficile.
Però la Duse è stata non solo un’attrice unica, ma anche qualcosa di più di un’attrice. Per esempio era capocomica, capo assoluto della sua compagnia, dal punto di vista artistico come finanziario. Dirigeva i suoi attori, le prove, sceglieva i testi. Lavorava per creare un castone adeguato alla sua arte, non era semplicemente una straordinaria prima donna. Penso sia fondamentale capire anche questo: cosa volesse dal teatro. Cosa volesse fare del teatro. Mi auguro di essere riuscita almeno a creare il problema, per chi legge, la domanda. E poi c’è la sua tecnica, la sua arte. Anche in questo caso gli indizi sono difficili – l’emozione degli spettatori è spesso troppo forte – ma è uno studio davvero affascinante.
Occupandomi della figura di Gabriele D’Annunzio da tempo, mi rendo conto che – spesso – l’accostarli è divenuto sin troppo facile. Quali sono state – invece - le sfide nel rivedere i loro rapporti sotto una nuova luce?
È l’unica cosa che la maggior parte delle persone conosce della Duse: la sua relazione con D’Annunzio. E in genere questa relazione viene vista sotto la luce di un amore così grande che la porta a rovinarsi per mettere in scena le opere del poeta. Alcuni studiosi di D’Annunzio ultimamente hanno detto che non bisogna pensare alla Duse come a una vittima e a D’Annunzio come a un carnefice, ma viceversa. A me sembra che non sia interessante occuparsi di vittime e carnefici. Erano due straordinari artisti, e hanno cercato di creare un teatro nuovo. Ognuno dei due aveva però una visione diversa, forse bisogni diversi, e perciò nonostante tutto non sono riusciti a lavorare davvero insieme.
Quello che ho cercato di fare, in questo libro, è stato far vedere la relazione della Duse con D’Annunzio soprattutto da questo punto di vista: una delle molte tappe della sua vita in cui l’attrice cerca un modo per provocare un vero terremoto artistico, che mettesse in gioco il teatro del suo tempo, e perfino il suo, quello della stessa Duse, le sue abitudini, le sue capacità ormai collaudate. Quello con D’Annunzio non è stato né il suo primo né l’ultimo di questi terremoti.
Eleonora Duse è stata una delle più grandi attrici di tutti i tempi, studiatissima eppure ancora misteriosa. Il suo stile era tanto lontano dalla norma che talvolta gli spettatori, vedendola in scena, rimanevano sconcertati e diffidenti – per poi innamorarsene.
Trovo molto calzante questa descrizione scelta per presentare il volume, poiché mi consente di chiederle quale pensa sia la quintessenza del fascino - tutt’ora inalterato - della “Divina”.
Credo che fosse in una capacità di dare agli spettatori un’emozione tanto forte da prescindere dalla storia che mostrava in scena. Le emozioni a cui dava vita erano tanto intense e tanto complesse da creare, in chi guardava, una vera scossa, non solo sentimentale, ma in primo luogo mentale. O forse si dovrebbe dire esistenziale. Qualcosa che mettesse momentaneamente in crisi convinzioni ormai incorporate…
Una vera chicca del libro è lo studio delle mani dell’attrice, colte in diversi momenti chiave. Cosa ci dicono della sua, impareggiabile maestria?
Per esempio, non sono mai mani rilassate. Spesso lo sembrano, ma poi a guardarle con attenzione spesso sono contratte, tese, ghermiscono quando dovrebbero accarezzare, si aggrappano quando dovrebbero sfiorare. Ci fanno intuire come la Duse lavorasse non solo creando pose bellissime, non solo grandi e piccole azioni sconvolgenti, ma anche mettendo a punto una rete di tensione minuscole, di quel tipo che rende un corpo più vivo in scena, e lo rende imprescindibile per chi guarda. La cosa davvero incredibile è che se ne possono trovare tracce nelle fotografie, pur essendo tutti ritratti in studio. Eppure, ci riusciva, soprattutto in collaborazione con alcuni fotografi particolari, capaci evidentemente di cogliere certe sfumature e metterle in risalto, o forse anche di far sentire l’attrice come se fosse in scena. E poi, questi dettagli delle mani mostrano la complessità del suo lavoro, simile a quello di un grande scultore, o di un grande pittore, capace di tessere contrapposizioni sottili, che non saltano agli occhi a prima vista, ma che agiscono lentamente su chi guarda.