A Bruxelles c’è una villa, piuttosto un palazzo, la cui maquette (riproduzione) in legno in scala è presente in diversi musei europei. L’edificio in questione è il palazzo Stoclet, classificato nel 2009 patrimonio dell’umanità dall’Unesco, come pure il suo giardino.
Si tratta di un lussuoso alloggio il quale doveva essere edificato a Vienna. La morte del padre di Adolphe Stoclet lo obbliga a trasferirsi nella capitale belga per gestire un impero finanziario dove porta con sé anche il suo sogno; il loro sogno, suo e della di lui moglie: un palazzo “totale”.
L’architetto Josef Hoffmann, dal 1903 al 1904, infatti elabora il progetto sulla base della volontà del committente di realizzare un palazzo “totale”, che rappresenti anche al proprio interno l’ispirazione del romanticismo tedesco dell’arte totale (Gesamtkunstwerk). Particolarmente discussa, questa tendenza combina più tecniche, più discipline oltre a coinvolgere lo spettatore e i suoi sensi, in un progetto utopico di fondere vita e arte.
Gli interni furono affidati a Gustav Klimt ai quali si aggiunsero collezioni che spaziano dai Primitivi italiani all’arte orientale, dall’Egitto al Perù, dal Medioevo europeo all’Africa nera. Si pensi che anche il pianoforte a coda è stato disegnato dallo stesso Hoffmann. Insomma un’opera d’arte a tutto tondo. Per il Belgio, patria dell’Art Nouveau, un punto di passaggio verso l’art Deco, anche se più assimilabile all’esterno a quest’ultima. Un capolavoro dove ancora abitano i discendenti, alcuni discenti di Adolphe Stoclet.
Nel 1976 un regio decreto lo tutela come monumento. Nel 2005 anche il giardino viene riconosciuto patrimonio del Paese e l’anno seguente anche il contenuto del palazzo viene protetto, sempre con regio decreto.
Poco oltre vent’anni fa, nel 2002, l’ultima residente, Annie Stoclet-Giers, nuora di Adoplhe è morta all’età di 94 anni. Da allora nasce una disputa legale tra gli eredi del palazzo e le autorità governative e regionali belghe relativa all’apertura al pubblico del palazzo. Nel recente passato Palazzo Stoclet veniva aperto al pubblico di tanto in quanto qualche giorno l’anno. Poi, non più, poiché considerata dagli eredi Stoclet un’intrusione in «una residenza famigliare e scrigno di ricordi (…) – in definitiva - un elemento di intimità familiare».
Nel frattempo, per poter far fronte alla gestione e restauro del palazzo, gli eredi Stoclet hanno messo in vendita molte delle opere d’arte presenti nel palazzo poiché privi dei milioni di euro necessari alle opere di manutenzione del palazzo. Le autorità della capitale belga adiscono in tribunale e vincono la causa contro gli eredi. Nonostante ciò il palazzo resta chiuso al pubblico. Di fronte alle richieste governative gli eredi, prima in disputa tra di loro per l’eredità, fanno fronte comune.
La disputa continua quasi in sordina fino a quando nell’estate del 2023 la signora Ans Persoons, segretario di stato all’urbanistica, appena nominata, ne fa una battaglia anche mediatica volendo imporre volontà del pubblico sul privato.
Questione posta un po’ tardivamente constatando l’avvenuta “Brussellizzazione” della città.
La brussellizzazione è un neologismo apparso negli anni ’70, e conosciuto i tutte le facoltà di architettura d’Europa, per descrivere la devastazione causata dalla distruzione del patrimonio architettonico della città attraverso una politica che ha favorito il capitalismo selvaggio per l’edificazione di uffici.
Meno emersa nei media è invece la questione del copyright. La famiglia Stoclet non ha mai voluto, neanche quando ogni tanto il palazzo fu aperto al pubblico, che le opere d’arte presenti fossero in alcun modo riprodotte; né le autorità governative belghe hanno mai posto soluzione alla questione. Nelle prese diposizioni a riguardo della famiglia Stoclet sembra prevalere la concezione di Walter Benjamin sul valore dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. La questione comunque ormai sarà discussa e decisa nelle aule del tribunale belga.
Un caso simile concerne la collezione Agnelli della cui esistenza si è venuti a conoscenza per la lite ereditaria all’interno della famiglia e che consterebbe di ben 636 opere (tra queste sembra ci siano opere di Picasso, Monet, De Chirico, Balla, Balthus etc.). Il Ministero dei beni culturali italiano ha chiesto almeno la visione dell’elenco delle opere della collezione ma ha ricevuto un netto dinego da parte di Lapo e Ginevra Elkann. Per ora il Tar (Tribunale Amministrativo Regionale) ha ritenuto che gli eredi di Agnelli abbiano ragione «quando lamentano che l’interesse pubblico è qualcosa di ben diverso dall’interesse “del pubblico” ad essere informato su fatti e circostanze attinenti ad una famiglia ‘nota’».
Peccato che la questione sia molto pubblica anche in considerazione del fatto che l’acquisto di queste opere d’arte da parte della famiglia Agnelli è stato possibile grazie ai profitti dell’azienda primaria, la Fiat, e che tali profitti sono stati resi possibil anche dalle pingui e ripetute sovvenzioni statali all’azienda ed in definitiva dai danari dei contribuenti, coloro i quali in inglese vengono definiti molto aulicamente: “taxpayer”.