Che il mondo vada (quanto meno apparentemente o teoricamente) avanti è noto e, con l’eccezione dei fautori della decrescita che specificano dover essere “felice”, ciò che appare più probabile è il contrario. Tra quei fattori da migliorare di continuo vi è, indiscutibilmente, l’inclusione, il consentire ad un numero sempre maggiore di individui di fruire di tutto ciò che abbiamo, anche in presenza di oggettive difficoltà.
L’esempio tipico, il più facile da comprendere e forse pure da risolvere, è quello delle barriere architettoniche, cioè di quegli elementi che, se è ammesso fare battute anche su temi assolutamente seri, non servono a tenere lontani gli architetti (!) ma sono presenti nel nostro ambiente e costituiscono ostacolo fisico, non culturale, a qualcuno, che evidentemente “soffre” di una differenza rispetto a quella che chiamiamo “normalità”.
Al di là della definizione e della relativa spiegazione, si tratta molto semplicemente di componenti con cui la maggior parte di noi è abituata a convivere ma che per altri, meno fortunati, sono veri e propri impedimenti, spesso insuperabili. Le scale sono il primo e più eclatante caso, ma basta un solo gradino, come nei marciapiedi, a rendere la vita impossibile.
Per questo nell’ormai lontano 1989 venne emanata una specifica normativa (Legge 9 gennaio 1989, n.13) e il relativo decreto attuativo (Decreto del Ministro dei Lavori Pubblici 14 giugno 1989, n.236), con lo scopo dichiarato di dare nel primo caso le “Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”, nel secondo le “Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche”.
A questi hanno fatto seguito le norme che ogni regione si è data, già perché la disabilità in Piemonte è molto diversa da quella presente in Calabria. Se consideriamo che in alcuni casi la legge “locale” è più restrittiva e in altri l’esatto contrario, abbiamo compreso di cosa si tratta quando si argomenta sulla concorrenza stato-regioni. L’applicazione del corpus legislativo, secondo chi così si comporta, evidentemente non è un problema, e lo è ancor meno la sua soluzione, visto che si dice di voler debellare la cosa ma la realtà è un’altra, come lo è “parlare”, cosa che oggi fanno in moltissimi, rispetto a “risolvere”, territorio di pochi, molto impegnati e che per questo non hanno il tempo per fare i pavoni.
Sbagliato farsi fretta, certo, l’applicazione del corpus legislativo necessariamente avviene nel tempo, “day-by-day” dicono quelli (anche italiani) che parlano inglese. Non abbiamo l’obbligo di modificare i nostri edifici ma se costruiamo qualcosa di nuovo o ristrutturiamo l’esistente dobbiamo realizzare opere che aumentino la qualità di fruizione da parte di un numero maggiore di persone per cui, un poco alla volta, si arriverà al risultato desiderato, magari prima del nuovo millennio.
Proclami a parte, dopo più di un terzo di secolo qual è il bilancio che possiamo ritenere di avere ottenuto?
Abbiamo un mondo perfettamente utilizzabile da tutti? No di certo, e forse aver raggiunto la totalità sarebbe un’utopia. Al contrario, non c’è stato alcun miglioramento? Non è vero e non può essere che non ci sia stato alcun effetto. Come sempre la risposta sta nel mezzo, però questa risposta non può bastarci, è troppo vaga: siamo a metà, più vicini al risultato inferiore o a quello superiore?
Non è facile esprimere il risultato in termini semplicemente numerici, oltre al fatto che un dato tanto freddo non ci sarebbe utile se non, forse, per giudicare l’operato del legislatore e di chi è tenuto a verificare l’applicazione delle norme, il che è davvero poco interessante.
Per noi “abitanti”, infatti, è molto più importante guardarci attorno e comprendere l’importanza del tema e dell’attuazione delle specifiche misure per rendere più fruibili i nostri spazi, perché l’entità del risultato dipende anche, se non soprattutto, da noi.
Ecco quindi alcune osservazioni, senza la pretesa dell’esaustività, volte alla comprensione dell’importanza del tema e a spingere tutti noi nella direzione di cui si è già scritto.
Molte cose positive sono state realizzate: i percorsi esterni (anche nelle spiagge), che hanno azzoppato qualche edificio rendendolo però accessibile, gli ascensori e i montascale hanno collegato i piani terra con quelli in elevazione e interrati, i servizi igienici nei locali pubblici hanno contribuito all’aumento della socialità e così via. Impossibile negarlo.
Non tutto però è andato così. La prima inevitabile osservazione non può che vertere sul fatto che i cosiddetti “disabili” non sono solo coloro che per i motivi più diversi hanno delle difficoltà ma siamo tutti noi, anche senza malattie: basta subire un infortunio o avere la fortuna di invecchiare. Bello l’agire per gli altri ma l’interesse è in realtà diretto.
A ruota come non evidenziare che la vera integrazione è quella di rendere tutto disponibile a tutti, l’avere dotazioni specifiche è già, ma solo, un passo avanti. Le postazioni e i percorsi specifici per chi ha problemi motori sono un grosso passo avanti ma dobbiamo puntare a non doverli distinguere da quelli ordinari. Se quella appena descritta è una situazione ideale, quindi tendenziale ma non raggiungibile, quello che davvero è successo ne rappresenta -con le dovute eccezioni- l’esatto opposto. In che altro modo definire la realizzazione di parti specificatamente progettate e realizzate ma di fatto non utilizzabili dai destinatari?
L’aneddoto chiarisce la cosa: organizzando una cena con colleghi tra cui una persona disabile, ho fatto scegliere a quest’ultimo il locale dove prenotare, sentendomi dire che i bagni riservati pur presenti in moltissimi ristoranti non sono in realtà utilizzabili da chi si sposta su una sedia a ruote. In questa sede, poco importa se la causa sia imputabile al progettista, all’esecutore delle opere o al gestore del ristorante: il risultato non cambia. È appena il caso di sottolineare che le persone con disabilità non sono (quasi) mai sole e perdere l’opportunità di ospitare questi “insiemi” di clienti è, dal punto di vista del ristoratore, un errore: tornando alla cena prima citata, ho personalmente portato una quarantina di persone nel solo locale davvero accessibile, cioè fruibile, dalle persone con disabilità motoria.
In modo del tutto simile, se non analogo, come è possibile che si continui a realizzare, e a non sostituire, porte interne di larghezza tanto ridotta da non consentire il transito alle sedie a ruote. La non conoscenza della normativa che stabilisce l’opportuna larghezza minima del varco è grave, ma forse lo è ancora di più non considerare gli aspetti indicati in apertura. Non riuscire a vedere sufficientemente lontano è un problema che non potrà che ritorcersi contro di noi, non domani mattina ma succederà, probabilmente prima di quanto ci immaginiamo. Allora, come sempre, si dirà che non lo sapevamo, dando per scontato che non si poteva conoscere e quindi decidere diversamente, ma anche questo non è corretto, meglio ricordare che c’è chi lo lo aveva detto e non è stato ascoltato, facendosi carico dei maggiori costi e del relativo disagio, compreso il sentirsi dei perfetti sprovveduti.
Degli spazi di manovra che dovremmo obbligatoriamente ricavare, lasciandoli liberi da tutto, in prossimità per esempio dei sanitari e delle porte e che spessissimo invece mancano, cosa vogliamo dire? La loro assenza è dovuta a un errore materiale? Potrebbe essere, se allo spazio realizzato manca un centimetro, non può esserlo se è assente l’intera area.
La legge obbliga alla preventiva redazione di un vero e proprio progetto comprendente elaborati grafici e testuali ed alla definitiva certificazione della corrispondenza tra quanto realizzato e la normativa in materia, il tutto sottoscritto da un professionista abilitato, che quindi se ne assume la responsabilità. In diversi casi -non tutti- tale incartamento è soggetto anche al controllo da parte dei tecnici comunali di settore, che ne avallano il contenuto o ne chiedono la modifica. Quanto enunciato a proposito delle carenze sembrerebbe perciò impossibile ma, senza dubbio, più che possibile è reale, quasi come se qualcuno si fosse specializzato nell’aggirare le leggi e altri non fossero in grado di applicarle. A proposito: quale dei due atteggiamenti è più grave?
Le norme non sono tutte uguali, come non lo siamo noi, che comprendiamo chi soffre qualsiasi imposizione, comprese quelle che democraticamente la comunità si dà, chi supinamente accetta tutto e chi si vanta della propria totale correttezza. Non rispettare le norme pensate per favorire l’integrazione ha però un sapore particolare, esattamente come parcheggiare negli stalli riservati alle persone diversamente abili, c’è chi lo fa e se ne vanta!
A questo proposito, avete notato la posizione che spesso hanno i posti riservati? Ovviamente non è un fatto di costo, non ci sono ostacoli fisici o altro, ma allora perché a volte vengono collocati in modi tanto assurdi e che comportano al diretto interessato percorsi più lunghi -quando va bene- e a volte addirittura impossibili, come se chi scende dall’automobile non avesse alternativa al risalire e spostarsi altrove?
Le scale sono però la barriera architettonica più importante, generalmente vengono costruite in modo migliore di quanto si faceva un tempo, forse perché la norma è più precisa e quindi più difficilmente aggirabile. Ciò malgrado, continuiamo a vedere in molti casi delle scale a chiocciola, strettissime, molto ripide, con parapetti davvero poco protettivi e gradini che si muovono nello spazio come vere e proprie lame: in una parola totalmente difformi e davvero pericolose per tutti color che capitano a tiro! Sommando quanto sopra esposto e volendo fare il solito gioco della ricerca delle responsabilità, chi dovremmo nominare?
Se non è troppo facile, nel podio riserviamo il gradino più basso ai professionisti, troppe volte disponibili ad accarezzare il pelo dei committenti e a vendersi per un tozzo di pane certificando quanto non lo merita! Finora non risulta sia ancora successo ma la bellicosità in continuo aumento porterà alla contestazione del lavoro dei tecnici progettisti, che non potranno accampare alcuna motivazione a propria difesa!
Al secondo posto non può che esserci il legislatore, che emana norme affatto chiare, per non dire contraddittorie, e non riesce ad andare oltre lo sbandierare ideologicamente i propri meriti. Molti studiosi hanno cercato di spiegare la causa di tanta pochezza, non si è però riusciti ad andare oltre il dover accettare la mediazione tra le opposte fazioni (argomento in questo caso completamente privo di senso, se non diamo importanza al “correggere” per partito preso il lavoro della controparte), altri ritengono che chi in vita propria non ha mai fatto nulla (e quindi non conosce il mondo reale) non possa fare meglio, infine c’è chi ritiene che abbia un ruolo il fatto che la categoria più rappresentata tra i legislatori sia di coloro che “vivono” delle interpretazioni delle norme, e quindi -non è certo il mio pensiero- lo farebbe apposta per crearsi le occasioni lavorative.
In vetta però non può che esserci il committente, colui che ordina le opere da eseguire e le paga, decidendo il da farsi. Per questo l’unico modo per uscire da questo stato di cose è fare cultura sull’argomento, scopo anche di questo scritto. Se non ne comprendiamo il valore, infatti, non c’è norma che tenga, continueremo a ritenerci più furbi degli altri per il solo fatto di essere riusciti ad aggirare una norma così importante, in generale ma anche per noi stessi. Ovviamente fino al primo infortunio.
La causa del mancato raggiungimento del risultato completo è sicuramente la natura di chi abbiamo democraticamente delegato ma questo aspetto non è realmente risolvibile nel breve tempo, è perfino sbagliato disquisirne qui, perché distrarrebbe dalle reali possibilità di incidere in tempi non biblici nel mondo reale. Se quest’ultima é ciò che desideriamo o almeno auspichiamo, non ci resta che smettere di girare attorno alle cose e, finalmente, agire. Chi? Qual è il soggetto?
Noi, in prima persona, coinvolgendo tecnici e fornitori in modo che ognuno abbia il suo ruolo e possa dare il proprio contributo per la limitazione delle barriere architettoniche, nel numero (meno solo meglio è!) ma anche nell’entità, riducendo ciò che è limitante, fino a rendere difficile l’individuarle, perché assenti o molto rare o davvero minute, e costringendoci a raccontare che “C’era una volta” un mondo in cui non tutti potevano fare le cose più elementari, e alla contestazione dei giovani dovremmo spenderci per raccontare, con dovizia di particolari, quello che abbiamo vissuto e magari per non sembrare bugiardi dovremo mostrare delle vecchie foto.