Palazzo Como, uno dei pochi esempi rimasti in piedi di architettura rinascimentale a Napoli, si trova a via Duomo, poco prima di piazza Nicola Amore, meglio nota come “dei quattro palazzi”.

L’edificio, con la sua inconfondibile facciata in bugnato di ispirazione fiorentina, è conosciuto anche come il Palazzo che cammina. In piena epoca del risanamento post-unitario, infatti, il palazzo era destinato ad essere abbattuto perché d’intralcio al progetto di ampliamento di quello che era ancora Vicolo S. Giorgio ai Mannesi, uno degli antichi cardines della città greco-romana.

Fu allora che un gruppo d’intellettuali napoletani si oppose al progetto ad ottenere l’arretramento di ben 20 metri delle mura perimetrali divenute le uniche superstiti del glorioso palazzo del Quattrocento. Il percorso di visita inizia con la sala Carlo Filangieri, in stile neogotico, le cui volte a mosaico, riportano gli stemmi e i nomi dei maggiori esponenti della famiglia, mentre alle pareti sono esposte armi in asta cinesi ed armature giapponesi; nelle vetrine si ammirano armi orientali.

Salendo la straordinaria scala elicoidale si accede alla Sala dedicata ad Agata Moncada di Paternò, madre del fondatore, dove oltre al prezioso pavimento maiolicato, si possono ammirare opere che vanno dal XVI all’XIX secolo, tra cui capolavori di Jusepe de Ribera, Luca Giordano, Battistello Caracciolo, Mattia Preti ed Andrea Vaccaro.

Sull’elegante passaggio pensile, che conduce alla splendida biblioteca del Principe, si allineano le vetrine che raccolgono la collezione di maioliche, porcellane e ceramiche non solo della Real Fabbrica di Capodimonte e Ferdinandea, ma anche delle più importanti fabbriche europee.

Già nel 1404 era proprietà di Giovanni Como, figlio di Girolamo, che, nel 1450, con l’aiuto del fratello Fabio, acquistò una casa vicina e un giardino con fontane per ampliare la propria dimora. I lavori cominciarono nel 1464 e, dopo aver acquistato porte, finestre e piperno, la famiglia Como si affidò all’opera di Rubino di Cioffo da Cava e di Evaristo da San Severino.

La realizzazione del progetto rallentò a causa delle difficoltà di Angelo Como e della famiglia nell’acquistare un altro giardino, di proprietà di un certo Francesco Scannasorice che rifiutava qualsiasi offerta.

Così, Alfonso II d’Aragona, del quale Leonardo Como, figlio di Angelo, era segretario, decise di intervenire acquistando il terreno e donandolo nel 1488 alla famiglia Como, in virtù dei leali servigi che gli offriva. In seguito, vennero aperte altre quattro finestre, realizzato il gran salone interno e aggiunti gli stemmi della famiglia Como e, in segno di ringraziamento, anche di quella d’Aragona.

Purtroppo, con il susseguirsi degli anni, in seguito al declino della dinastia aragonese, anche la famiglia Como cadde in rovina e, non trovando gli eredi un accordo su chi dovesse abitare il palazzo, decisero di affittarlo, prima ai canonici della Cattedrale, poi, nel 1567, a Tommaso Salernitano, che lo utilizzò fino al 1587, anno in cui la proprietà venne venduta a Marcello de Bottis. Quest’ultimo, però, per ragioni sconosciute, abbandonò il palazzo dopo pochi mesi e lo lasciò alla Congregazione di Santa Caterina da Siena.

Questo evento alimentò la leggenda popolare riguardo l’esistenza del cosiddetto munaciello, un folletto maligno che avrebbe abitato e infestato le antiche case della città. Così, i frati che entrarono in possesso dell’edificio lo trasformarono affinché potesse essere utilizzato come monastero, lasciandone intatta la facciata.

Tra il 1815 e il 1820, in seguito alla soppressione degli ordini religiosi, alcuni ambienti del palazzo vennero usati dall’austriaco Antonio Mennel come fabbrica di birra, mentre altri vennero occupati dall’Archivio del regno.

Successivamente, nel 1824, l’Ordine della Venerabile Giovanna de Lestomac occupò l’edificio, dopo una parentesi che lo vide sede per gli alloggi delle truppe austriache. Anche in questo caso, però, la loro permanenza non durò molto a causa del crollo della volta del refettorio.

Più tardi, nel 1826, il palazzo fu dimora dei padri Minori Osservanti che vi rimasero fino al 1863, quando ci fu una nuova soppressione degli ordini religiosi.

Dopo questo avvenimento gli interni divennero sede di uffici del Municipio e della Pretura. A metà XIX secolo, Palazzo Como dovette affrontare i lavori di allargamento di via Duomo che ne misero seriamente a repentaglio la sua permanenza.

Alla fine, grazie alle pressioni degli ambienti intellettuali del tempo, si decise di farlo arretrare di una ventina di metri. I lavori vennero affidati agli ingegneri Eduardo Cerrillo, Carlo Martinez e Alberto Pedone che riuscirono a completare la ricostruzione. In quell’occasione il palazzo venne destinato a museo grazie all’intervento di Gaetano Filangieri, che propose all’allora sindaco di Napoli, Girolamo Giusso, di conservarvi le opere di sua proprietà.

Oggi pochi conoscono palazzo Como e la collezione ivi residente – oggi non più completa, date le devastazioni della Seconda guerra mondiale – quasi un tradimento a quello che aveva voluto Filangieri, ossia che il museo potesse diventare opera di pubblica utilità.