Doveva essere il migliore degli altri il nostro XX secolo.
Non farà più in tempo a dimostrarlo,
ha gli anni contati,
il passo malfermo,
il fato corto.

Sono ormai successe troppe cose
che non dovevano succedere,
e quel che doveva arrivare,
non è arrivato.

Ci si doveva avviare verso la primavera
e la felicità, fra l’altro.

La paura doveva abbandonare i monti e le valli,
la Verità doveva raggiungere la meta
prima della menzogna.

Certe sciagure
non dovevano più accadere,
ad esempio la guerra
e la fame, e così via.

Doveva essere rispettata
l’inermità degli inermi,
la fiducia e via dicendo.

Chi voleva gioire del mondo
si trova di fronte a un compito
irrealizzabile.

La stupidità non è ridicola.
La saggezza non è allegra.

La speranza
non è più quella giovane ragazza
…. purtroppo.

Dio doveva finalmente credere nell’uomo
buono e forte,
ma il buono e il forte
restano due esseri distinti.

Come vivere? – mi ha scritto qualcuno,
a cui intendevo fare
la stessa domanda.

Da capo e allo stesso modo di sempre,
come si è visto sopra,
non ci sono domande più pressanti
delle domande ingenue.

(Wisława Szymborska, Scorcio di secolo)

Siamo abbondantemente entrati nel XXI secolo da quando la poetessa polacca Wysława Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, scrisse questi versi, ma ancora ritroviamo la stessa risposta alla domanda: “Come vivere?”: “Da capo e allo stesso modo di sempre”, come a dire che nulla è cambiato e nulla cambia.

In questo inizio d’anno siamo di nuovo in partenza per il viaggio che ci ha visti arrivare da molto lontano, da territori nei quali abbiamo chiesto invano ospitalità. Spesso siamo stati cacciati o, ancor peggio, abbiamo trovato un inatteso destino di morte e sofferenza. Tornano alla mente i luoghi che abbiamo abitato, le vie che abbiamo battuto con l’intento di raggiungere la meta sperata, le persone che abbiamo incontrato, dalle quali abbiamo atteso risposte anche senza aver posto loro domande. Rito che si ripete, attesa di un ritorno che possiamo cercare di immaginare.

È cominciato un altro viaggio ma questo inizio è un balzo nell’ignoto che richiede coraggio e, soprattutto, la capacità di provare di nuovo stupore e meraviglia. Percepire, per quanto flebile e tormentato, il desiderio di immergersi nell’acqua della vita. Accogliere le sensazioni nelle quali luce e ombra si intrecciano senza rifiutare di mettersi in gioco.

Bisogna raccogliere tutte le forze per superare la paura che viene alimentata dalla nostra abitudine a pensare che tutto si muova attorno ad una sorta di nostra centralità, che ogni cosa si compia per noi dimenticandoci ciò che tante volte abbiamo appreso sull’illusorietà del mondo, sul fatto che ciò che muta non sono le cose bensì il nostro modo di guardarle, di incontrarle. Abbiamo ritrovato una gamma di atteggiamenti, di sentimenti che vanno dal fastidio, al rifiuto, fino alla rabbia e alla ribellione.

Se siamo consapevoli che tutto ciò che sorge poi scompare allora dobbiamo essere più flessibili di fronte al cambiamento, sia quello esterno, sia quello che avviene dentro di noi, dobbiamo liberarci da schemi che ci imprigionano. Pensiamo che arriverà il momento in cui potremo vedere il grande cambiamento che ci renderà davvero come vorremmo essere e che riusciremo a creare situazioni pienamente rispondenti alla nostra idea di perfezione. Tuttavia questa visione può essere fuorviante poiché, mentre attendiamo i grandi risultati, finiamo per non vedere il bene prezioso, la meraviglia delle piccole cose, delle minuscole tracce che sono il risultato del nostro sforzo di stare nello scorrere della vita.

Impariamo a non logorarci per cercare di aggiustare le cose poiché non è questo il nostro compito: la nostra responsabilità è nel come stiamo nelle situazioni. Possiamo soffrire ma non ci identifichiamo con questa sofferenza: è un’esperienza preziosa quella che stiamo attraversando. Non c’è una perfezione da raggiungere perché l’obiettivo, se così vogliamo chiamarlo, non è la perfezione che, per sua natura, è competitiva, bensì l’equilibrio, e l’equilibrio è sempre frutto della capacità di mediare tra posizioni estreme.

L’equilibrio è fortemente legato all’accettazione del cambiamento, l’equilibrio è un modo di superare gli ostacoli mantenendo la misura.

Chi affronta il viaggio deve essere leggero, libero di procedere senza gli orpelli che ci tengono legati ai bisogni indotti da una quotidianità che ci chiede continuamente di essere pronti ad affrontare ciò che accadrà, di dominare gli eventi, di non perdere mai le nostre certezze, di prevedere e controllare il futuro, mentre ci allontaniamo sempre più dalla capacità di vivere il momento presente nella pienezza del sentire, dell’esserci.

Per mettersi in cammino bisogna rendersi disponibili ad incontrarsi con un accadere che non è prevedibile, ma che esige di essere vissuto così come si presenta, in quell’ora, in quel luogo, in quella circostanza, unico e irripetibile: è questa la natura dell’evento, una parola ormai abusata della quale si è perduto il senso profondo che attiene alla sfera del sacro, là dove tutti i legami vacillano e si mettono in gioco, dove le sicurezze dell’abitudine saltano.

L’unica certezza per chi affronta il viaggio è la continua trasformazione che si scontra con il bisogno radicato di stare aggrappati alle cose, a ciò che riteniamo ci appartenga, a ciò che vogliamo dominare.

Quella del viaggio è la metafora appropriata per indicare il cammino che ciascuno intraprende ad ogni inizio d’anno, ma forse potremmo dire ad ogni inizio; ed è al tempo stesso rimando alla condizione di viandante che accomuna tutti gli esseri in quel mistero della vita che con mistico condivide la radice etimologica a sottolinearne la sacralità.

Scrutando l’orizzonte come antichi pellegrini, guardiamo il cielo, pronti ad accogliere il mutamento, ad incontrare l’ignoto, a condividere con generosità, a praticare la pazienza, ad attendere ed accogliere i segni per sostare o ripartire.

Per il viandante il corpo, la salute del corpo è un bene prezioso e deve quindi prendersene cura, farsene carico come della propria anima, nutrirlo, dargli riposo e ristoro, dargli acqua e cibo così da metterlo in condizione di accogliere con gioia piena ogni partenza per una nuova tappa del cammino, per sentir scorrere dentro di sé la forza vitale che altro non è se non l’essere parte del tutto. Un corpo che è sacrario del cuore, che deve essere “curato” come luogo di bellezza, che respira il respiro dell’universo, che riscopre la scintilla originaria che sta dentro ogni creatura e ne suggella l’appartenenza all’ordine cosmico. Si torna ad essere frammenti del tutto.

L’esperienza del continuo mutamento diviene la fonte del sapere, luce e buio tornano ad essere punti di riferimento nella scansione del tempo e c’è una sicurezza di precarietà che spaventa e al tempo stesso induce all’attenzione e all’ascolto. Tutti i sensi sono preziosi per chi viaggia. Le percezioni si affinano per accogliere i segnali: l’udito è accarezzato dal vento, intuisce il suono dell’acqua, l’olfatto annusa l’aria che prelude alla pioggia.

È questo un tempo colmo di quel mistero al quale la nostra anima deve attingere con fiducia per riuscire, nonostante tutto, a nutrirsi di bellezza e di forza. È in realtà un tempo proficuo che induce al silenzio. Non un silenzio senza parole, pesante e oscuro bensì un silenzio nel quale sono possibili l’ascolto e la comprensione. È nel silenzio che scorre potente l’energia che, al di là della parola, crea il contatto “da cuore a cuore” e noi abbiamo bisogno di questo incontro profondo, intimo, abbiamo bisogno di ritrovarci nel cerchio potente della benevolenza, nell’abbraccio morbido della verità.

(* in Wisława Szymborska, Gente sul ponte, a cura di Pietro Marchesani, Libri Scheiwiller 1997)