L’Italia è la patria delle arti. È il Bel Paese, dove tutto è grazia e bellezza. Uno dei pochi primati positivi è quello che riguarda il patrimonio artistico.
Tutto un luogo comune? Sì e no.
È vero che l’Italia ha un patrimonio di sculture, quadri, siti archeologi che non teme rivalità, ma è anche vero che il mito dell’Italia culla delle arti ha radici antiche.
Ed uno dei primi diffusori fu Giorgio Vasari.
Giorgio Vasari, nato ad Arezzo nel 1511, fu un pittore, architetto e scultore che prestò servizio presso la corte del duca Cosimo I de Medici.
Ma la sua fama, più che legata alla sua produzione artistica, tutto sommato mediocre, è dovuta alla scrittura di un testo fondamentale per la Storia dell’arte, quasi inventore di un genere: Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e archi tettori da Cimabue insino a’ tempi nostri.
Le Vite vantano due edizioni, una nel 1550 e l’altra, più ampia, nel 1568, e fu un successo.
Non privo di giudizi dell’autore, insieme a notizie preziosissime per opere ora non più esistenti, le Vite furono un best seller già all’epoca.
Un best seller che traeva origine dagli esiti non soddisfacenti di un’altra raccolta sulle vite di artisti, scritta da Paolo Giovio. Giovio era un dilettante, non un artista, e alla sua opera mancava quella profondità o bello stile che invece non difettava in Vasari. Oltre a ciò, Vasari era anche un teorico: distinse tre Età dell’arte italiana, cui fece corrispondere tre diverse maniere, da intendersi come stili o fasi stilistiche.
Ovviamente, la prima maniera (o Età se si preferisce), inizia con Cimabue. La trattazione di Vasari parte dalla seconda metà del XIII secolo, e trova in Cimabue le origini della nuova rinascenza artistica che ebbe piena fioritura nel Cinquecento.
Non è che prima non ci fossero artisti: a Vasari non interessavano. Sia nella prima che nella seconda edizione, il primo, il progenitore, era sempre Cimabue.
Questo ha dato adito alle accuse di toscanocentrismo dell’opera, vero solo per quanto riguarda la prima edizione. Nella seconda, a fronte del successo, Vasari incluse anche artisti non toscani, celando poco, e male, la sua predilezione per la scuola pittorica toscana.
La seconda maniera corrisponde con l’attività di Masaccio, Donatello e Brunelleschi: siamo nel primo Quattrocento, agli albori del potere dei Medici e dell’Umanesimo.
Vasari specifica come in questa fase l’arte si sia arricchita della capacità di indagare la natura, anche se forti sono ancora gli influssi derivanti dall’arte medievale.
Curiosa espressione, indagare la natura. Nel Medioevo gli artisti erano incapaci di farlo? A giudicare dalla quantità di fondi d’oro, la risposta sembrerebbe essere di sì. Ma non si trattava di incapacità, quanto di adesione ad un linguaggio. Gli artisti medievali non erano interessati ad imitare una natura che per loro era già perfetta in quanto espressione della volontà divina. Volevano trasmettere un messaggio attraverso dei simboli chiari a tutti.
L’arte medievale era un’arte legata molto al significato, non tanto al modo in cui veniva espresso. Non sorprende quindi che la maggior parte delle opere di età medievale pervenuteci fosse di stampo religioso.
Tutto questo a Vasari non interessava, dato che voleva sottolineare i meriti di una ricerca che era uscita dai secoli barbarici e che, sebbene imperfetta, doveva servire come apripista per il genio del suo secolo: Michelangelo.
La terza maniera (o maniera moderna), avviata da Leonardo da Vinci, vedeva il suo campione in Michelangelo Buonarroti, considerato la massima espressione dell’arte del Cinquecento. Un riconoscimento frutto non solo dell’amicizia che legava Vasari e Michelangelo, ma anche alla convinzione che, dopo Michelangelo, l’arte poteva solo decadere. Segni di decadenza che, nell’edizione del 1568, Vasari già intravedeva nei nuovi artisti, rimpiangendo i tempi del suo amico, morto quattro anni prima.
Se Michelangelo era l’apoteosi della terza maniera, che dire di Raffaello? Vasari non aveva un’alta opinione di lui, vuoi la rivalità con Michelangelo, vuoi una questione di gusto. Il suo atteggiamento ha posto le basi per il dibattito che si protrarrà per il secolo successivo: chi fu superiore, Raffaello o Michelangelo? Ogni periodo aveva il suo vincitore, anche se le polemiche fine a loro stesse erano sterili, e portavano a quell’irrigidimento dello stile che tanto preoccupava Vasari.
Nonostante i difetti, e nonostante non sempre riportano notizie di prima mano o affidabili, le Vite di Giorgio Vasari sono la più importante eredità dell’artista, e se oggi possiamo parlare di Storia dell’arte, il merito è anche suo.