Sul finire del secolo XIX, una figura comica e sinistra invade le scene teatrali della Francia. È un uomo pinguemente florido, bramoso sia di cibo che di autorità, privo di morale e refrattario a ogni costumanza civica. Questa creatura turpe e belluina, incarnazione del potere più arbitrario e di tutte le possibili sregolatezze, è destinato, forse ben oltre le intenzioni del suo creatore Alfred Jarry, a precorrere il surrealismo e diventare uno dei miti fondanti della contemporaneità.

Con una trama tanto semplice quanto funzionale, dichiaratamente modellata sull'orditura del Macbeth shakespeariano, Ubu re è la prima e anche la più nota pièce fra quelle legate al ciclo di questo ingombrante personaggio.1

Padre Ubu, capitano dei dragoni e ufficiale di fiducia del re Venceslao, viene istigato alla rivolta dalla moglie, la Madre Ubu, che risveglia in lui sopite aspirazioni: come può, gli chiede, accontentarsi di «condurre alle riviste una cinquantina di sgherri armati di salacche» quando potrebbe ambire invece alla corona di Polonia? Accogliendo di buon grado l'imbeccata, Ubu uccide il sovrano, si impossessa del trono autoproclamandosi «Padrone delle Finanze» e, subito dopo, elimina in maniera sistematica tutti i funzionari che lo avevano appoggiato nell'impresa. Malgrado ciò, sarà poi costretto a guardarsi le spalle dal figlio del re, Brugelao, che durante le purghe ha fatalmente risparmiato e che adesso potrebbe far ritorno per vendicare il genitore e riscattarne il seggio.

Ubu – massacratore di nemici veri, supposti o soltanto potenziali – antepone l'appagamento dei suoi bisogni più immediati a qualsiasi morale, infischiandosene del proprio ruolo e dei suoi ipotetici doveri nei confronti della Storia. È infatti acronico, pura essenza istintuale; rifiuta il decoro, le mediazioni, la ratio, i rigurgiti della coscienza, insomma tutto quel che non collima col suo ego sterminato e imponderabile.

Ancor più che la bellicosa Regina di Cuori concepita da Lewis Carroll, che ne rappresenta comunque un possibile modello, Ubu, non possedendo un fine razionale, non può quindi tollerare la presenza di alcun limite – ne ha un'istintiva ripugnanza – ma è la rivelazione della tirannia come potere infantile e soverchiante. È un bambino, malgrado la stazza e l'icastica «ventraglia» che ne materializza la smisurata bulimia, e con l'aggravante d'essere un bambino al potere, dominato da autocratiche pulsioni e incapace di trovare un equilibrio fra i suoi appetiti e le risorse in grado di saziarle. Un «perverso polimorfo», per dirla con Freud, il cui puerile dispotismo – profetico e inquietante, se si pensa ai posteriori totalitarismi – si converte spesso in un impulso irrazionale alla disintegrazione: «Non avremo demolito nulla, se non demoliremo pure le rovine!».

La pulsione tirannico-infantile che lo anima ne fa una creatura allo stesso tempo autoritaria e pusillanime. Questa pavidità di Ubu potrebbe apparire un controsenso, ma non è che il risultato della smodata egomania del personaggio, che antepone la sua incolumità a qualunque evento o circostanza che potrebbero minarla anche solo di sfuggita. Tuttavia, gli eccessi della sua inarrestabile fagocitosi trovano sempre una via di sfogo, e dove, per l'affiorare della viltà o dell'istinto di conservazione, non giunge la solita furia acquisitiva, è la retorica, anch'essa fluviale e traboccante, a farne largamente le veci.

Emblematica, in tal senso, la Scena sesta dell'Atto quarto, nella quale, mentre sostano nei pressi di una caverna, Ubu e due suoi sgherri si ritrovano davanti a un orso. Mentre questi ultimi affrontano l'animale, l'usurpatore sale svelto su una roccia, da cui, rasserenato, osserva poi la scena, rifiutando aiuto agli altri nonostante uno dei due – quello più in difficoltà – ne implori l'intervento. Da ultimo, quando gli uomini hanno la meglio sull'orso e riescono a freddarlo, Ubu prova allora a sopraffarli con il rigurgito della sua facondia, non risparmiando nessun inutile artificio – dal capovolgimento della realtà all'uso del plurale maiestatis – pur di volgere tutto a proprio beneficio:

Dovete convincervi che se siete ancora vivi […], lo dovete alla virtù magnanima del Padrone delle Finanze, che si è affannato, sfacchinato e sgolato a recitare paternostri per la vostra salvezza e che ha maneggiato la spada spirituale della preghiera con coraggio pari all'abilità con cui voi avete maneggiato quella temporale […]. Abbiamo persino spinto oltre la nostra dedizione, perché non abbiamo esitato a salire su una roccia altissima affinché le nostre preghiere avessero meno strada da fare per giungere sino al cielo.

La sostituzione dell'atto fisico con il vigore di una ridicola eloquenza è un tratto comune fra Ubu e la sua molta prole, potremmo dire quasi un'eredità lasciata a quei figli che dal suo primo apparire sulle scene ha sparso per le letterature – non soltanto teatrali – di mezzo mondo.

Ciccino Craxic, l'omonimo protagonista del dramma di Witkiewicz,2 raccoglie alla perfezione il lascito del personaggio di Jarry, perpetuandone l'inquieta smania, i vizi, l'odio immotivato, l'esaltazione sfrenata dell'io e una retorica che usa all'occorrenza o come appendice alla propria autorità o come strumento per giustificarne la portata.

La pièce si apre nell'anticamera della sala delle udienze del palazzo, dove una pletora di gente attende il despota – che viene appellato servilmente «Vostra Unicità» – per chiedergli favori, amnistie e benevolenze varie, destinate non solo a cadere nel vuoto del suo disinteresse ma a scatenare talvolta inaudite conseguenze. La tracotanza inverosimile e arbitraria di Craxic sfocia talvolta nella schizofrenia, tanto che ai suoi parossismi d'ira seguono stati di mansuetudine, persino di catatonia, nei quali diventa remissivo e cede alle pressioni degli interlocutori, salvo poi riaversi e tornare con amplificata e fanciullesca crudeltà agli impeti che lo contraddistinguono. Anche lui, come detto, usa alla bisogna l'eloquenza per autoincensarsi o per convincere gli altri della propria magnanimità e degli sforzi cui per filantropia si sottopone:

Vi conduco verso una felicità che adesso non sareste nemmeno in grado di sognare. Solo io lo so. Ognuno si ritroverà nella sua scatoletta di ovatta, come un gioiello inestimabile – solo, soletto, unico nella dignità sovrumana del suo essere più profondo: così come adesso lo sono io. Soltanto, io soffro maledettamente perché mi sacrifico per voi.

Rispetto a Padre Ubu, Craxic ha una lungimiranza più marcata e qualche piano meglio definito, benché di un tipo altrettanto guasto e irrazionale; e come il suo modello francese, odia tutti, indiscriminatamente, e se concede favori è solo per bieco tornaconto. Nei confronti delle donne, poi, mostra un atteggiamento all'apparenza ambivalente di venerazione e ostilità, i cui poli riconducono comunque a una congenita misoginia, capace di produrre grottesche e calcolate aberrazioni.

Dobbiamo andare oltre l'individuo – se no non creeremo niente. Voglio restituire a tutta l'umanità quello che ha perduto, e al cui prezzo aspira a diventare – se già non lo è diventata – qualcosa di totalmente simile a un alveare, a un formicaio, a un nembo di cavallette, a un nido di vespe o qualcosa del genere […]. Non sopporto di vedermi circondato da donne comuni, e in genere aspiro a meccanizzarle completamente. Le donne le divido nelle cosiddette “donne vere” – che meccanizzo senza pietà, e nelle “donnidi”, che trasformo in uomini grazie all'innesto adeguato di certe glandole.

I suoi riprovevoli obiettivi sono tuttavia una parte del delirio assolutistico che lo esalta e lo possiede: «Immerso sino alle orecchie nel magma dei misteri, affonderò sino ai miei limiti, sino agli ultimi abissi. Sono come una stella nera sullo sfondo di una notte che arde di biancore!». A questa esaltazione egotica riuscirà a contrapporsi una sola persona – il novantaduenne Unguenzo, primo sacerdote della setta dissidente dei Perpendicolaristi – animata dalla stessa urgenza d'imporre i propri incoercibili diritti, ma con l'aggravante di un misticismo esasperato che prelude a desideri di assoggettamento e di controllo sociale ancora più nefandi.

Grazie a un ponderato stratagemma, l'anziano religioso fa prima in modo di comporre un duumvirato insieme a Craxic, eliminandolo poi al momento opportuno e prendendone immediatamente il posto. A questo punto, il processo di rimpiazzo è quasi ultimato: non manca che un intervento pseudo-scientifico con cui l'ex medico personale del monarca dovrà spostare i fluidi vitali di Craxic, prelevati dal suo sistema endocrino, per spostarli nel corpo del nuovo sovrano; a testimonianza del fatto che il potere è in grado di rigenerarsi, sempre, o di trasmigrare da un'essenza emanatrice all'altra, secondo la norma dell'ubi maior minor cessat.

Imprescindibile attributo del tiranno è l'essere svincolato dal tristo dominio della morte, quanto meno nei suoi propositi più manifesti, come se l'esercizio del comando potesse eludere il trapasso o quanto meno rinviarne a data incerta l'incombenza. Prima del regicidio di cui è vittima, neanche Craxic si sottraeva infatti a questa predisposizione, tanto da non considerare l'ipotesi che qualcuno fosse in grado di attentare alla sua vita. «Posso condannarmi a morte, se me ne venisse la voglia», affermava in tempi non sospetti, quando non poteva ancora dubitare della sua sacralità, rimarcando il fatto che la morte sarebbe arrivata, eventualmente, solo per una sua deliberata scelta e mai per mano di qualche famelico rivale.

Non sembra un atteggiamento tanto diverso da quello del sovrano che nella commedia Il re muore di Eugène Ionesco3 rifiuta l'idea stessa del decesso, malgrado si trovi immobilizzato a letto già da qualche tempo e con una diagnosi ben poco equivocabile:

Medico: Maestà, la Regina Margherita dice il vero, voi morirete.

Re: Ancora? Mi scocciate! Io morirò, sì, morirò. Tra quaranta, cinquanta, trecento anni. Più tardi. Quando vorrò, quando ne avrò il tempo, quando lo deciderò io. Intanto, nell'attesa, occupiamoci degli affari del regno.

È l'atteggiamento di un nume, la cui esistenza è dogma, perpetuità, inviolabile sostanza. Non a caso, di fronte alla certezza che nessuno gli obbedisca più come una volta, il re morente si ribella pieno di sincera incredulità: «Che cos'è questo sortilegio? Come fate a sottrarvi al mio potere?». E per provare a se stesso e agli altri che è ancora in grado di imporre ogni suo immaginabile capriccio, esclama con ridicola perentorietà: «Ordino che gli alberi spuntino dal pavimento. Ordino che il tetto scompaia. Come? Niente? Ordino alla pioggia di cadere. Ordino al lampo di comparire e che io l'afferri con la mano». È il meccanismo con cui il principio del piacere, infantilmente, domina sul principio di realtà e lo sottomette. Ecco perché, ogni qual volta subentra in loro la paura, questi tiranni figli di Ubu oscillano tra la megalomania e la superstizione. Questa paura, d'altronde, non è che una frustrata illusione d'immortalità, il frutto di un'illusione andata a male: quella del perpetuarsi, appunto.

Si consideri adesso questa tesi: ogni forma di potere può degenerare in qualsiasi momento e farsi tirannia. E poiché il potere ha spesso un valore relativo, laddove non è assolutizzato da un solo detentore ma circoscritto a un ambito specifico, ne deriverà l'assunto secondo cui anche un tiranno può esser “relativo”, cioè esercitare un'opprimente autorità nel determinato contesto in cui si trova a operare. Se quindi il mondo è sovraccarico di spietati dirigenti – o responsabili di settore, capi partito, prelati, primari, patriarchi e gerarchi di ogni sorta – i quali non hanno bisogno di regni e di corone per tiranneggiare all'interno dei loro piccoli domini, la letteratura, di riflesso, non può che esserne altrettanto piena.

Tra i rampolli che Ubu ha generato, ce n'è uno meno distinguibile degli altri – figlio di molti padri, in verità – ma il cui DNA testifica benissimo, quantunque mista, la parentela. Nella seconda e più celebre commedia di Samuel Beckett,4 mentre Estragone e Vladimiro attendono l'arrivo del fantomatico Godot, compaiono improvvisamente sulla scena, tra le desolazioni di una spoglia strada di campagna, due strani personaggi: il primo, Lucky, è carico di bagagli e con un capestro al collo; il secondo, Pozzo, che si presenta subito come il padrone delle terre circostanti, benché si tratti di luoghi abbandonati e quasi post-umani, regge in mano la fune e un minacciosissimo frustino.

Al di là delle scoperte allegorie – la classe dirigente che tiene al guinzaglio il proletariato – sul suo irascibile temperamento, e sulla sua spiccata attitudine al comando, non c'è da dubitare: «Io sono Pozzo!», urla in faccia ai due con voce terribile – come avverte la didascalia – «Questo nome non vi dice niente?»; e non ottenendo risposte che giudichi adeguate, avanza accigliatamente verso Estragone e Vladimiro. Ciò che dice loro a questo punto certifica in maniera decisiva la sua indole: «Siete pur sempre degli esseri umani, a quel che vedo. Della mia stessa specie. Della stessa specie di Pozzo! Fatti a immagine e somiglianza di Dio».

Malgrado la soverchia esaltazione che lo rende simile a molti suoi consanguinei letterari, Pozzo è una creatura ambigua, approssimativa, giacché ai classici attributi del tiranno unisce una certa meschina inconcludenza, come se in fin dei conti patisse il fatale e angoscioso immobilismo dei due che vanamente aspettano Godot. Il capestro per mezzo del quale tiene prigioniero Lucky vincola lui stesso, di riflesso, facendone al contempo un oppressore e un condannato. Nel secondo atto, come noto, Pozzo sarà gravato da una grave cecità, e la fune, significativamente più corta, avrà diminuito quindi la distanza fra loro due: più forte il vicendevole dominio, più forte la reciproca sottomissione.

Il cerchio, ora, sembrerebbe chiudersi perfettamente se si considera la terza parte della saga ideata da Jarry, Ubu incatenato, in cui l'ipertrofico tiranno decide di abbandonare ogni reggenza e farsi schiavo, ma imponendo agli altri, ai cosiddetti «uomini liberi», l'aggravio della propria servitù: «Mi prendo la libertà, la vostra libertà, di offrirvi i miei servigi». Ma è un cerchio destinato a una centrifuga apertura. Non importa a quale ceto sociale voglia appartenere e in quali condizioni egli si trovi, perché Ubu sarà comunque e ovunque un grumo di pulsioni irrisolvibili, di sconvenienze, un devastante assedio all'integrità della vita civile; e come tutti i miti, quantunque negativi o votati alla disfatta, può generare in qualsiasi momento un nuovo erede dall'imponderabile destino – persino un erede storicamente retroattivo, come il Caligola di Albert Camus, che vorrebbe prendersi la Luna soltanto perché è fra le poche cose su cui non è riuscito ancora a mettere le mani.5

Note

1 Alfred Jarry, Ubu roi, Le livre d'Art, 1896.
2 Stanislaw Ignacy Witkiewicz, Ciccino Craxic, ovvero Sui valichi del nonsenso, Bulzoni,1980. Si noti che questo non è il nome concepito dall'autore polacco, e che il titolo originale dell'opera, così come quello del protagonista, era Gyubal Wahazar.
3 Eugène Ionesco, Le roi se meurt, Alliance française, 1962.
4 Samuel Beckett, En attendant Godot, Éditions de Minuit, 1952.
5 Albert Camus, Caligula, Éditions Gallimard, 1942.