Alzo gli occhi verso i monti; da dove mi verrà l'aiuto?
(Salmo, 121)
Salire il monte della Croce di Medjugorje è esperienza che milioni di pellegrini cristiani di tutto il mondo hanno fatto, anche più volte, e quasi sempre pregando e cantando nel compiere il rito antico e purificatorio della Via Crucis. Chi scrive ha compiuto questo cammino una decina di volte. Come tutte le esperienze cristiane ogni volta è differente e ogni volta è uguale. La Via Crucis del Krizevac è per me una grande Via Crucis dove si manifesta con forza la vitalità ed essenzialità della Croce di Cristo per ogni vita di fede e per ogni esistenza umana quanto per lo stesso creato.
E’ facile entrare nel profondo compiendola, sia per i suoi connotati fisici e simbolici che per il fatto che tale colle è parte integrante del carisma mistico di Medjugorje, oltre che per il fatto che tale monte si mostra santificato da decenni di preghiere e pratiche delle virtù teologali oltre che da grandi manifestazioni dello Spirito Santo e della presenza della Vergine Maria. Il Krizevac appare monte santo già nel 1933 quando la fede del popolo di quella terra eleva la croce che oggi ammiriamo quale commemorazione dei 1900 anni dalla Redenzione di Cristo. Da allora ogni anno il popolo saliva per celebrare la festa dell’Esaltazione della Croce.
Oltre a ciò, questa altura appare santificata dal sangue delle vittime delle molte guerre che hanno afflitto i Balcani nei secoli. Non esageriamo se consideriamo il Krizevac il culmine dell’esperienza religiosa cristiana di Medjugorje, dopo la Santa Messa naturalmente. Ancora di più della “collina delle apparizioni” che giustamente ci commuove e ci spinge al raccoglimento per la sua associazione alla fedele tenerezza della Madre di Dio ma l’insegnamento mariano di Medjugorje è perfetto nel porre al centro il Cristo e la Sua Croce prima del ruolo corredentivo pur molto prezioso della Madre celeste per insegnarci l’essenza della fede e sostenerci nella speranza e nella carità.
Così analogamente il Monte della Croce è di poco preceduto dalla collina delle apparizioni nella storia teofanica di Medjugorje ma nel significato spirituale appare quasi il contrario: la collina di Maria rinvia al Monte della Croce alla cui ascesa prepara. Si ricorda la chiamata all’infanzia spirituale nel colle di Maria quanto si ricorda la chiamata alla maturità cristiana nella Via Crucis verso al Croce del Figlio che domina tutta Medjugorje e sopra la quale apparve nel cielo le parole di luce e di fuoco: Pace, Pace, Pace. Una ripetizione trinitaria che sembra voler ribadire: pace fra Dio e l’Uomo, pace fra l’Uomo e se stesso e pace fra l’Uomo e i suoi fratelli. La Croce quindi è al centro dell’insegnamento cristiano di Medjugorje come appare semplice e solenne sopra ogni parte di questa terra come a proteggerla e a sorreggerla indicandosi quale meta e scopo della vita cristiana: l’offerta di se stessi a Dio. Quando si iniziano a salire queste rocce l’esperienza è sempre denudante, spiazzante, impegnativa, perché c’è poca terra rossa e gli occhi vedono quasi solo pietre, spesso irregolari e aguzze. Pietre e rovi e qualche albero di ginepro.
Se il clima è umido le pietre e la poca terra diventano subito scivolose aumentando il rischio di sdrucciolare. Eppure nessuno si fa male, neppure gli anziani che lo salgono; neppure chi vi sale a piedi nudi per maggiore penitenza, neppure chi cade nel salirlo o nello scenderlo. La Croce di Cristo è bene dentro la fatica e mai fa male ma anzi è sempre motore trasformatore del peso e della sofferenza in nuovo spirito di vita. Per tutta l’ascesa gli occhi e la mente subiscono un processo di liberazione e purificazione perché per più di un’ora non vedono che pietre fitte. Ogni apparenza viene dissolta. Ecco come è la vita, la nostra vita, il mondo, privato delle sue illusioni e delle nostre apparenze e abitudini: solo pietre nude e dure. Nessuna possibilità di distrarsi, di evadere, di fuggire, di compiacersi, di appagarsi. La via è una dolce salita che si snoda serpentinamente con uno zig-zag che lentamente ci porta a quattrocento metri. I passi restano spesso incerti, come il balbettare di un bimbo perché l’uomo di fronte a Dio è bambino, è balbettante. Ma i passi dei pellegrini che ci hanno preceduto hanno reso il cammino riconoscibile e le pietre un po’ più dolci, lievi, levigate.
Ci si aiuta, ci si affratella nel lento salire fra silenzi, canti e preghiere. Si impara la pazienza a l’umiltà nello sguardo che è chiamato spontaneamente dal corpo stesso a tenersi basso per guardare dove siano le pietre migliori su cui appoggiare il piede e dove i pochi appigli per le mani in qualche ramo o piccolo tronco o roccia più grande o più sporgente. Ma se questo monte quale cumulo di pietre e rovi sembra un deserto fatto solo per indurre alla penitenza e alla purificazione nella sua nuda miseria e nella sua solitudine aspra mentre si sale lo sguardo inizia ad allargarsi e inizia ad imparare a guardare anche verso l’alto e attorno. E allora inizia a crescere anche la speranza dentro la fatica e il salire diventa dolce abitudine, priva ora di smarrimento e diffidenza.
Iniziamo a sentire amiche queste pietre che appaiono rosseggianti e più dolci e ricche di curve, di fessurazioni circolari, di forme strane, ciascuna unica.
Il colore rosso e bianco dominante della terra mista a pietre inizia a ricordare il corpo piagato del Cristo sofferente, grondante il suo santissimo sangue e quindi sempre più esangue, biancheggiante mentre stilla il suo balsamo. Viska ha visto in visione tutto il monte ricoperto del sangue salutare di Cristo. Il Monte è un corpo immoto, immagine del corpo teandrico del Figlio di Dio, saturo di ferite, di spine, di oltraggi. Allora si inizia a prendere coscienza che questo monte non è solo un’immagine della miseria della nostra vita senza Dio e della necessità dell’attraversare il deserto per giungere al Cristo-oasi ma ancora di più questo monte è il Monte, cioè il luogo eletto dell’incontro con Dio e con se stessi.
Il luogo teofanico dove le corna della nostra superbia devono impigliarsi nei rovi come l’ariete di Abramo sul monte Moria dell’offerta di Isacco.
Allora si sente nel corpo e nell’anima che questo monte è Cristo stesso che si sostiene, ci attrae, apre il nostro cammino e ci indica la meta nella sua Croce dove si è uno con il Padre nel nostro olocausto. Il Krizevac ci indica sempre e solo tutto il Cristo: quale origine e quale fine, quale fondamento, via e meta della nostra vita e di ogni esistenza. Camminando verso l’altro tra mille ostacoli vediamo nella nostra anima che stiamo muovendoci immersi nel Cristo e allora ogni ostacolo è occasione di aiuto, ogni pietra di inciampo può viversi quale passo per salire ancora. Il peso diventa sostegno, la barriera gradino di un’unica scala, la fatica accettazione, la povertà rientro nel cuore, il “guardare a terra” diventa guardare nel profondo, nel centro, nel nostro cuore dove Cristo ci aspetta nel silenzio. Capiamo per un momento, che sia lungo lo speriamo, che dentro il peso accettato abita la grazia, dentro la fatica l’elevazione.
Il Monte è Cristo stesso che si fa scalare, che si guida elevandoci, che ci aiuta a farci piccoli come povere pietre per saldarci nella sua stabilità divina. Ciò che sembrava solo caos e insignificanza inizia a splendere quale unità e concordanza. È il sangue di Cristo che si fa cammino di luce e di pace. Se poi vuoi sederti puoi farlo ma occorre anche qui attenzione e semplicità. Puoi cercare e trovare una pietra abbastanza piana e larga per il tuo riposo ma che non ostacoli il cammino degli altri pellegrini. Ti fai piccolo per riposare dentro Cristo ma il cammino ti chiama a continuare la salita, altrimenti nulla ha più senso, neppure il riposo. Ecco l’edificio spirituale: camminare verso il Cielo, insieme.
Nel mezzo del cammino ecco percepirsi le tre dimensioni di Dio di cui parla San Bernardo: la larghezza, l’altezza e la profondità. La larghezza sono le falde ampie e dolci del Monte, segno della divina misericordia che nessuno respinge e tutti invita all’eterna salvezza. L’altezza è indicata dalla Croce che svetta, massima elevazione dell’anima in Dio nello scambio mistico della reciproca offerta e la profondità è il cammino cristiano stesso, che entra nel cuore divino della montagna cristica. Nel cammino non c’è tempo per pensare a dominare sugli altri o a fuggire dalla propria vita o da Dio ma l’asperità spartana dell’ascesa induce a doversi concentrare solo sui propri passi e sul cammino stesso, dimenticando finalmente se stessi. È Cristo montagna e Cristo-Via che ci guidano, non siamo noi. E’ la vetta è lo sguardo di Cristo-Sole che unifica la vita e la nostra vita nella Sua divina presenza. Il cammino è tutto fondato sulla Parusia di Cristo e ruota attorno alla Parusia di Cristo. La vetta è l’Infinito in un punto dove divino e umano si uniscono in una nuova vita senza tempo.
La presenza solo di pietre e di arbusti bassi lascia più spazio al cielo. Il mondo si allontana crescendo nel cammino e diminuiscono le presenze che si interpongono tra il nostro cuore e il Cielo divino. Si cammina per entrare sempre di più nel Regno dei Cieli. La base del monte è Cristo giustizia che ci livella e ci schiaccia. Se accettiamo la correzione allora possiamo entrare nel cammino cristico che ci porta in alto, dentro, al largo. Tra la dimensione piana della base del monte e quella focale e puntuale della vetta ecco il cammino-croce dove incrociamo noi stessi e gli altri pellegrini che salgono e incedono.
Tra la linea orizzontale e il punto alto che è il Cuore-Occhio di Cristo ecco la dimensione verticale che non siamo degni di percorrere in immediatezza e allora ci soccorre appunto il sentiero roccioso e serpentino che si snoda con calma dolcezza in varie volute come il fumo ancora pensante di un sacrificio che poi diventa più profumato e leggero e alla fine salirà dritto nell’alto come quello di Abele. Tutto è monte e tutto è croce. Questo monte è il palo eretto innalzato attorno al quale si mostra il serpente salvifico. Il sentiero accorda i nostri sensi spirituali attorno al palo dell’elevazione del Cristo Salvatore e quando la corda dell’anima sarà tesa sapremo ascoltare la musica celeste.
La croce a terra è la base del monte. Salendo si alza la croce dal e nel nostro cammino e una volta eretta ci offriremo la nostra vita completandola con il braccio orizzontale. Salendo ci si volge attraverso le due direzioni fino ad unificarle per imparare a non deviare né a destra e né a sinistra. E la vetta è anche l’unico centro che occorre centrare mentre il cammino è fatto dall’incontro continuo fra la provvidenza di Dio e la nostra volontà. Il cammino appare mentre cammini in Cristo-Via senza pensare a te stesso ma solo alla tua meta: Cristo-Vita. L’anima e il corpo sono chiamati a muoversi attorno all’eterno e immutabile Spirito di Dio di cui il monte è vitale immagine come la lana si avvolge attorno al suo fuso. Questo monte è anche monte di Maria. L’Eletta è montagna di Dio, inamovibile nella sua fede perfetta, immota nella sua fedeltà totale e purissima.
Maria stava sotto la croce, cioè abita senza muoversi l’ombra dolorosa di Dio quanto abita la sua ombra fecondante. Se i tre discepoli prediletti si sono addormentati nella notte pasquale del Getsemani Maria resta vigile nel dolore del Calvario, nella desolazione del monte-teschio. La sua grande anima resta con il corpo eretta vicino alla croce del Figlio, crocefissa interiormente, vessillo luminoso alla luce del roveto ardente della Redenzione. Il Monte è segno di fuoco nella sua vicinanza al Cielo del Dio-Fuoco divorante quanto è segno di terra stabile e fedele e di acque pulite e feconde, alte sorgenti. Maria è montagna di Dio, sempre fresca e invincibile, sempre giovane, opus magnum Dei che ci insegna a non scagliare le pietre ma ad accettarle. Sul monte di Dio si sale con Pietro, Giacomo e Giovanni, cioè si sale nella fede, nella speranza e nella carità e in queste virtù divine si viene rigenerati e rifondati dallo Spirito divino.
Lassù occorre fermarsi alla luce della Croce per entrare nel riposo dello Spirito. Il riposo dell’anima che lo Spirito dona e la presenza dello Spirito che riposa con la sua grazia nell’anima docile, fedele e paziente. Il salmo 71 così invoca: “le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia”. Il colle delle apparizioni ci insegna infatti la giustizia nella pratica di fede della via dei misteri della vita di Gesù Cristo e di Maria contemplati nel Rosario e il monte della croce ci fa sentire la pace nell’interiorizzazione della Via dolorosa del Redentore. Così i cuori duri come pietre iniziano ad addolcirsi, ad intenerirsi perché chiamati dalla Madre e dal Salvatore a divenire cuori nuovi, cuori di carne: amanti, ardenti, sensibili, teneri, pietosi, misericordiosi.
Le stazioni della Via Crucis appaiono gradualmente sempre più momenti vivi, eventi presenti, accadimenti che ci riguardano, che parlano della nostra vita, sostegni di speranza divina e sorgenti di grazia vittoriosa e luminosa. Il bronzo delle belle sculture si mostra lucido e luccicante in corrispondenza del capo del Cristo, della sua corona di spine, dei suoi piedi: è la fede del popolo, la carità dei pellegrini che si inteneriscono al racconto delle terribili sofferenze che è costata la nostra salvezza e che li spinge ad un atto di amore verso le immagini di Gesù e di Maria. L’amore cristiano è la vera alchimia che trasforma il bronzo: sembra oro! La discesa dal monte ci insegna ancora una volta l’umiltà e la grande verità che non ci si salva da soli. Quando le pietre sono umide è facile scivolare e allora i pellegrini sono indotti ad aiutarsi vicendevolmente. E certe volte è chi sosteniamo che ci sostiene mentre perdiamo l’equilibrio. Quando siamo scesi sentiamo ancora il cammino dentro di noi, con la sua pace: anche il nostro cuore si è fatto un poco monte.
Una nuova forza e una nuova speranza ci anima. Ora guardiamo la medesima Croce con maggiore confidenza e le altezze prima sentite lontane come raggiungibili, partecipabili, intime al nostro spirito. Salire e scendere il Monte della Croce di Cristo ci insegna la presenza a noi stessi, cioè a farsi - come chiede il Vangelo – “semplici come colombe e prudenti come serpenti” e così dentro la presenza a noi stessi possiamo ascoltare la presenza di Dio che è mormorio di vento leggero ci insegna il santo profeta Elìa sull’Oreb. “Presenza a noi stessi” significa vedere il reale senza illusioni cioè vedersi in Dio come in uno specchio. Lo specchio è appunto il Cristo-Verità. Le antiche allegorie aiutavano a ricordare la chiamata alle virtù cardinali con i segni di una donna, l’anima, che teneva in una mano uno specchio e nell’altra un serpente.
Il monte della Croce ci educa a vivere le virtù cardinali per essere pronti a ricevere e vivere i doni divini: le virtù teologali della fede, della speranza e della carità. “Giustizia” è vivere alla presenza di Dio, abitare il cuore che si arrende alla grazia di Cristo.