Kenny White è un po’ come la divina Greta Garbo nel film di Cukor Non tradirmi con me (Two-faced woman in originale, 1941) ovvero si fa concorrenza da solo. È un musicista grandissimo, negli anni Settanta era già con Linda Ronstadt nel leggendario tour Living in the USA, sul quale incombe il se stesso precedente che ha avuto tanto successo, ma gli ha sottratto tempo. Il tempo in uno showbiz assetato di debuttanti in fasce mentre lui aveva bisogno di decenni per la maturazione interiore, si veda l’intensità meditata delle sue parole.

In sintesi: Kenny White, americano, è stato un compositore assai affermato e remunerato di jingle per le pubblicità di, fra gli altri, General Electric, American Dairy Association, AT&T, McDonald’s, Chevrolet, e ha cominciato dopo a scrivere canzoni. Questione spinosa per la gestione di psiche e vita pratica.

L’incontro inizia con un dialogo che, benché il dietro le quinte si tenda in genere a celare per non risultare penosi, forse vale la pena riferire:
«Ti sei divertita al concerto di ieri (Teatro del Sale, Firenze, n.d.r.)?».
«Sì, è stato davvero speciale. Grazie mille».
«Non ti sei preparata le domande per l’intervista, spero».
«Non oserei mai».
«Io non mi sono preparato le risposte. Perfetto».

Ti sei divertito al tuo concerto?

Il pubblico era tranquillo, ho dovuto fare un piccolo aggiustamento.

Ti sembrava freddo, insomma.

Sì.

Era silenzioso per rispetto. Alla fine ha applaudito con calore.

Una volta, in un pubblico di centinaia e centinaia di persone, due sono andati via. Ho notato solo loro. Perché non gli piace? Che cosa dovrei dire? Che cosa dovrei fare? Siamo tutti insicuri (lo dice con un malinconico, irresistibile sorriso, n.d.r.).

Partiamo dal Lago Maggiore?

Grande! Ci sono stato nel 2019, 75 anni dopo mio padre Daniel. Nel 1944 mandò tre fotografie e io ho scattato le stesse. Posto bellissimo, nonostante ci andasse Mussolini. L’enorme rimpianto di mio padre era di non essere nato in Italia. Amava tutto dell’Italia.

Sei cresciuto in una comunità siciliana, vero?

Quasi completamente, al 90%. A Fort Lee, New Jersey, al di là del Washington Bridge, New York. I ragazzini parlavano americano, i padri e le madri qualche volta, i nonni non erano interessati: troppo difficile. Passavo un sacco di tempo con queste famiglie, cenavo con loro perché i miei erano fuori tutto il giorno ed ero un latchkey child (bambino i cui genitori lavorano e che perciò ha le chiavi di casa, n.d.r.). Dai siciliani ho imparato la relazione diretta fra due persone, il non coinvolgere terzi. Il senso dell’onore. E quant’è buono il cibo. Non sono mai stato in Sicilia, dovrei. Il Padrino è il film migliore mai fatto, senza dubbio. Di recente mi è piaciuta la serie L’Amica geniale tratta dai libri di Elena Ferrante, sto aspettando la prossima stagione. Il cast è fantastico e la musica una delle più belle colonne sonore che io abbia sentito.

Le tue canzoni. Da In my recurring dream: «Realizzo che non è Gesù, è la musica che salva».

Qualcuno si è molto arrabbiato. Dopo un concerto ho dovuto accertarmi che non avessero un’arma. E pianti isterici: «Tu non credi». Un tizio mi fa: «Devi cambiare questa strofa». Prima di tutto: nel contesto della canzone è un sogno. Secondo: non ditemi quello che devo cambiare! Ma ho avuto anche reazioni incredibilmente positive. Io non avevo intenzione di provocare, semplicemente penso ciò che ho scritto.

Da The Other Shore: «Confondere l’amore con la fame».

Io le ho confuse tante volte. Se dovessi prendere la canzone preferita fra quelle che ho scritto, potrebbe essere questa. È difficile scegliere, ma di sicuro The Other Shore è una delle mie preferite. Il concetto è in Rainer Maria Rilke. Sempre rubare dal meglio! .

Quando hai smesso con i jingle e sei diventato un songwriter avevi oltre quarant’anni.

Ero troppo vecchio per il business. Il pubblico mi ascolta, ma le case discografiche cercano i ventenni. Avevo provato a scrivere canzoni già prima dei jingle: avevo qualche buona connessione e scrivevo canzoni intelligenti, interessanti, ma non commoventi. Suonavo dal vivo, aprivo i concerti degli amici, ma non mi emozionavo nemmeno io: perché nei miei vent’anni ero tutto concentrato su di me. Adesso invece non si tratta più di me, ma delle canzoni. Adesso provo a connettermi con il pubblico.

Era presto, ti serviva vivere?

Troppo presto, decisamente. Ci sono idee nelle mie canzoni che ho scritto perché non sono abbastanza coraggioso da dirle, ma sono abbastanza coraggioso da scriverle. È più facile. 5 girls, non so se la conosci, l’ho scritta svegliandomi da un pisolino pomeridiano. Non faccio sonnellini, di solito, perché al risveglio mi sento in un modo terribile.

Svegliarsi due volte al giorno è troppo?

(Ride, n.d.r.). Erano le cinque del pomeriggio, venne un’amica e le dissi: «Aspetta, devo scrivere». Avevo notato che in un bar che conoscevo al Greenwich Village le donne avevano lo stesso tatuaggio sul sedere quello che chiamiamo tramp stamp. Io sono un ribelle, un anticonformista perciò divento cinico in questi casi e alla fine della canzone rivelo che cosa avrei voluto fare a questo tramp stamp, incluso cancellarlo con la lingua. 5 girls è un esempio di qualcosa che non ho detto, ma ho scritto. In my recurring dream è la mia canzone più richiesta ai concerti, ma 5 girls viene subito dopo, da tanti anni.

Hai appena fatto una tournée in Europa con la violista fiorentina Giulia Nuti.

Una persona immensa che non prova mai a esserlo. Quando nel 2011 è morto Ernesto De Pascale, con il quale avevo dei contatti, mi portò lei in Italia. Ed era giovanissima all’epoca.

Parlaci degli incontri con i colleghi musicisti.

Arrivavo da Boston e negli studi di New York lavorai con i miei eroi. Mi vengono in mente i King Crimson, Peter Gabriel. Erano i tipi che ascoltavo, e mi trovai a scrivere per loro. Avrei dovuto collaborare anche con Harry Belafonte per una pubblicità, ma non so che cosa accadde in fase di negoziazione. Non l’ho mai incontrato.

Belafonte, il massimo.

Sì. Politicamente, artisticamente, esteticamente. Mia madre e mio padre sono stati sposati per sessant’anni. Mia madre mi disse: «L’unica persona per la quale avrei lasciato tuo padre è Belafonte».

Ieri al concerto hai citato Keith Richards.

Il contatto fu tramite Peter Wolf, nei primi anni Ottanta. Con la J. Geils Band aprirono per gli Stones in varie date. Peter è affascinante, incredibile, uno dei miei più cari amici. È stato sposato con Faye Dunaway. Solo per cinque anni… è volubile. Lei venne a un paio di prove, bello conoscerla: un’altra leggenda. Peter ha relazioni molto strette con Mick, Keith e Charlie. Era surreale per me trovarmi fra loro. E Crosby… E un giorno a cantare con Joan Baez.

Entusiasmante.

Toccante, ma non è stato facile per me accettare che ero fra i miei eroi, fra i musicisti che ascoltavo. Mi sentivo più insicuro di sempre.

Complicato mantenere l’equilibrio?

Yeah. In alcune situazioni vorrei impegnarmi per essere più di successo perché la composizione dei jingle permetteva un bel vivere e ho guadagnato abbastanza soldi per scrivere le canzoni adesso, in America diciamo fuck you money. Ero il compositore più richiesto per i jingle e anni dopo mi sono trovato ad aprire i concerti degli amici famosi. Molto felice, nessun problema, ma invece era un problema far parlare i media di me. Non ho lavorato abbastanza duro, anche cominciando a scrivere canzoni a 46 anni avrei potuto ottenere di più.

Magari c’entra il tuo temperamento. Rimpianti?

No, in realtà. Sarebbe potuta andare in un altro modo, ho un agente ora e se lo avessi avuto vent’anni fa sarebbe stata una storia diversa. E questo è frustrante. Ma veri rimpianti, no, non li ho. Ho amato il business dei jingle: vendere zucchero ai diabetici (ride, n.d.r.). A parte le battute: il processo di composizione era strepitoso e non avrei potuto imparare più velocemente o meglio. Sai che ho diretto anche The London Symphony Orchestra? Per lo spot degli autobus Greyhound. Non sapevo nemmeno cosa stessi facendo! Li avvisavo: «Muovo le mani, ma non mi guardate, vi confonderei». Mi è piaciuto registrare con The London Symphony. Erano le comiche, il mio lato idiot savant (ride di gusto, n.d.r.).

Che musica ascolti?

Ero un fan della musica pop da ragazzino, ovvio. C’erano tanti stili, anche roba commerciale. Ora c’è l’intelligenza artificiale. Ma oggi voglio provare emozione, forse con l’età si vede la morte che si avvicina, e alla musica chiedo di sentire qualcosa, di pensare a qualcosa. Sono diventato più selettivo anche con gli amici. Ho perso un rapporto di tanti decenni a causa di Trump. Non è un fatto politico fra repubblicani o democratici: Trump è un animale diverso, mostruoso. Sarebbe come se il mio amico avesse votato per Goebbels. È un uomo brillante, divertente, ma non ce la faccio, per me il fatto che voti Trump è impossibile da superare. Ho paura che stiamo perdendo la nostra democrazia.

Negli USA o dovunque?

Nel mio paese il 50% è fatto da idioti.

Questo è confidenziale?

Non mi importa, scrivilo pure. Gli Stati Uniti del 2023 non sono la nazione per la quale mio padre combatteva in Italia nel 1944. Potrebbe essere ancora un posto favoloso, ma c’è gente arrabbiata, impaurita dalle differenze, dipendente dalle pistole. Io non capisco. L’unica passione è l’odio.

In Italia c’è chi ce l’ha con gli immigrati.

Io sono cresciuto in un paese di immigrati, sono abituato al melting pot. Non so se fossi nato qui dove c’è una cultura fra le migliori, e il cibo assolutamente migliore, devo pensarci. Forse avrei dovuto fare uno sforzo per accettare la diversità? Sarei lo stesso? Spero di sì!

Siamo sicuri noi: Kenny White sarebbe lo stesso. Canzoni su questi argomenti?

Ci vuole distanza, come con l’amore. Una canzone è bella quando scrivo della vita degli altri, non della mia.