Genova è la città dei grandi cantautori, da De André a Gino Paoli, da Bruno Lauzi a Luigi Tenco, la scuola genovese ci ha regalato centinaia di canzoni che sono entrate nella storia della musica italiana.
Ma da un po' di tempo a questa parte Genova è anche la città della musica d’autrice e del Lilith Festival.
Il Lilith Festival si svolge ogni anno in estate nel capoluogo ligure ma durante l’anno l’associazione organizza tantissime attività nel territorio e fuori regione, per restare aggiornati potete visitare il sito.
Ho intervistato Sabrina Napoleone e Cristina Nicoletta, fondatrici insieme a Valentina Amandolese di uno dei più interessanti festival musicali italiani.
Arrivata alla XII edizione, la particolarità di questa manifestazione è l’essere riservata alle donne o a band a composizione prevalentemente femminile.
Nel corso degli anni il palco del Lilith ha ospitato grandi nomi e stelle nascenti dell’underground italiano e internazionale, registrando migliaia di presenze e tante candidature; ma lo scopo principale di questo festival è puntare i riflettori sullo stato della musica al femminile in Italia.
Ci sono tante donne che suonano e troppe poche occasioni per suonare.
Sull’urgenza di questa riflessione e, in generale, sull’opportunità di riservare occasioni e vetrine a sole artiste donne si è parlato a lungo, spesso male e comunque forse mai abbastanza.
Partiamo dall’inizio: le grandi idee maturano dentro per anni ma prendono vita solo quando arriva quella scintilla che trasforma il pensiero in azione. Qual è stato il momento in cui avete deciso di inventarvi un festival al femminile?
C&S: Tutto parte dal locale per diventare globale. Avevamo già cominciato a collaborare tra noi e organizzare alcuni eventi, oltre a scrivere e suonare la nostra musica. L’idea di un festival al femminile ci è venuta circa quattordici anni fa, quando ci siamo rese conto che a Genova e in Liguria cominciava ad esserci una scena di cantautrici sempre più nutrita.
Ma anche grazie a piattaforme come MySpace, stavamo conoscendo altre donne che in Italia sentivano l’esigenza di esprimersi come compositrici e autrici della propria musica, in molti casi con risultati interessanti. A guardare i cartelloni di festival e rassegne, però, non sembrava stesse succedendo granché, a parte le solite note la presenza delle donne non cresceva, anzi.
L’idea di un festival al femminile ci è venuta così, un po’ per la voglia di contarci e raccontarci, di conoscerci e farci conoscere, un po’ per rispondere a un problema reale di mancata rappresentanza delle donne, in questo come in altri ambiti.
Esistevano altri festival del genere prima di questo?
Non ci risulta che quando abbiamo cominciato la nostra esperienza del Lilith in Italia ci fossero altri festival del genere, sicuramente prima di noi sono arrivati alcuni premi come il Bianca D’Aponte a Caserta e il meno fortunato e conosciuto Un Mare Di Donne a Camogli.
Quest’ultimo, pur essendo durato solo poche edizioni, è stato però uno spunto interessante, in un certo senso il Lilith Festival ha proseguito il discorso intrapreso dall’organizzatrice Iole Piccinino in quelle occasioni, a cui diverse di noi hanno partecipato (Cristina ha vinto la prima edizione, nel 2004).
Abbiamo però deciso di non essere un contest, perché non era nelle nostre finalità la competizione. E poi ci è interessato da subito, anzi nelle prime edizioni questo elemento è stato più pregnante rispetto alle successive, fare il punto con lə addettə ai lavori sulla presenza delle donne sul, dietro e oltre il palco. Anche situazioni come le prime edizioni di Onda Rosa al MEI di Faenza sono state importanti, soprattutto per conoscere di persona altre artiste da tutt’Italia.
Quando si parla di musica al femminile e di festival riservati alle donne si rischia di essere accusate di peggiorare la situazione, come se ammettere che esiste un problema di sessismo non faccia altro che creare vittimismo e amplificare gli stereotipi di genere sulle donne. Vi sono poi molte donne che giustificano la scarsità di nomi nei cartelloni con l’esistenza di una minore percentuale di donne musiciste. C’è anche chi accusa le musiciste di non aver voglia di applicarsi abbastanza, contribuendo così a perpetuare l’idea che sia accettabile per una donna dover lavorare più duramente di un uomo per conseguire pari opportunità. Concedendo che sia indiscutibilmente veritiero il fatto che vi sia una minore presenza di musiciste donne rispetto agli uomini - il che ci porterebbe a una riflessione ancora più ampia su una società non ancora paritaria - ritengo comunque che nella maggior parte dei casi le musiciste donne siano considerate prima donne, e poi musiciste. Vi è mai capitato che un’artista rifiutasse di partecipare al vostro festival proprio per queste motivazioni? Avete mai ricevuto accuse di sessismo da parte di musicisti uomini che avrebbero voluto partecipare al vostro festival o in generale da altri addetti ai lavori?
No, che un’artista invitata a suonare al nostro festival abbia rifiutato per le motivazioni di cui sopra non ci è mai capitato. Anche per quanto riguarda lə headliner, hanno sempre accettato con piacere di partecipare al nostro festival e “sposare” in qualche modo le nostre cause. E questo vale anche per i pochi headliner uomini cui abbiamo chiesto di fare i “madrini” della situazione, se ci si passa il neologismo.
Invece, soprattutto durante i primi anni della nostra attività, qualche accusa di sessismo da parte di colleghi maschi che si sentivano esclusi le abbiamo ricevute e la riceviamo ancora. Con gli anni però sempre meno, forse perché si è fatta strada una maggiore consapevolezza – o magari solo un certo pudore - su certe tematiche, forse perché chi ci segue sa che organizziamo anche eventi e rassegne aperte agli uomini.
Siamo diventate anche noi un po’ più brave a spiegare che quello che ci interessa non è fare delle riserve per sole donne, ma rispondere nel nostro piccolo e in maniera concreta a un problema reale che non riguarda solo la musica, cercando anche di sensibilizzare su temi come le violenze e le discriminazioni di genere, qualsiasi genere.
Anche noi preferiremmo che non ci fosse più bisogno di iniziative come il nostro festival e sappiamo che ci si potrebbe obiettare di rischiare di dar luce più all’essere donna che all’essere artista: ma chi lo fa non è consapevole di quanto certi discorsi siano stati intrapresi da troppo poco tempo, di quanto ci sia bisogno, anche e soprattutto per le nuove generazioni, di rinforzarli e avere esempi in cui riconoscersi, per pensare “ok, si può fare”. Come dici tu, siamo ancora lontanə da una società paritaria.
Citando un’intervista di Cristina, il Lilith Festival è riservato a un genere (quello femminile) ma è aperto a tutti i generi (musicali). Avere come minimo comune denominatore la presenza femminile vi ha permesso di poter spaziare tra i generi musicali, in quanto il target di riferimento è il pubblico interessato alla musica al femminile? O cercate comunque di scegliere le artiste in base a delle caratteristiche legate a un genere musicale?
Intanto il sottotitolo del Lilith Festival parla di “musica d’autrice”. Ci interessa particolarmente chi persegue un discorso creativo che va dalla scrittura all’espressione e talvolta alla stessa produzione. Ci interessa mostrare che anche fuori dal mainstream e dalla canzone d’autrice tout court ci sono realtà interessanti.
Tu parli di “target di pubblico interessato alla musica al femminile”… non l’abbiamo mai pensata così. Anzi, è importante far vedere che si può e si deve uscire da alcuni canoni, dalle linee tracciate, da strutture più o meno consce per cui una donna che decide di scrivere-cantare-suonare deve farlo in un certo modo per essere più fruibile.
Semmai l’idea è quella di dire a diversi pubblici “ehi, guardate che ci sono queste artiste che ve le suonano alla grande”. Nel possibile cerchiamo di contestualizzare le serate, anche se a volte è bello mescolare le carte e i pubblici. Sarà che anche come artiste e fruitrici di musica siamo abbastanza eclettiche, che ci annoiamo noi in primis in certe situazioni…
Portare avanti un festival per dodici anni non è cosa da poco, soprattutto per una realtà costituita per gran parte da volontari e volontarie.
Quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato? Siete state appoggiate od osteggiate dall’amministrazione e dalla cittadinanza?
Già, non è facile per nulla. I primi anni, in nome di una totale incoscienza, abbiamo dovuto contare quasi esclusivamente sulle nostre forze e sull’aiuto di qualche sponsor. All’inizio alle istituzioni non abbiamo chiesto nulla se non la fruizione di alcuni spazi. Curiosamente sono state poi loro a sostenerci quando hanno capito che il nostro operato aveva anche e soprattutto una valenza culturale per la città.
Poi, per alcuni anni, non abbiamo avuto proprio nulla ma fortunatamente potevamo compensare con qualche sostegno più sostanzioso di sponsor privati. Adesso sarebbe impensabile. Partecipiamo ogni anno a bandi nazionali, regionali e comunali e qualcosa abbiamo ottenuto quasi sempre, ma c’è un enorme lavoro dietro a questo, mai del tutto ripagato se non dalla soddisfazione di riuscire ogni anno a portare avanti il Festival.
Il lavoro volontario, compreso il nostro, continua ad essere fondamentale anche se nel possibile abbiamo cercato di rispondere sempre più al bisogno di pagare tutte le professionalità, comprese quelle delle musiciste e artiste emergenti.
In generale comunque abbiamo potuto contare su un rapporto rispettoso e collaborativo con le istituzioni, nonostante il nostro esserci sempre apertamente schierate in alcune battaglie per i diritti civili che a Genova come altrove non hanno proprio l’avallo di certi amministratori. Ma se vuoi fare delle cose per il bene di tuttə, mantenere un dialogo è fondamentale.
Qual è il momento che vi ha dato maggiore soddisfazione?
I momenti di soddisfazione sono tanti, fortunatamente, e compensano la fatica e un po’ di stanchezza che comincia a farsi sentire. Più che dai riconoscimenti siamo soddisfatte quando le artiste che hanno partecipato ci dicono di essersi sentite parte di qualcosa di bello e quando vediamo che qualche seme che crediamo di aver contribuito a lanciare comincia ad attecchire, anche tra lə organizzatorə di altri festival.
È vero che ci sono poche musiciste donne in Italia? Avete mai avuto difficoltà a riempire il cartellone?
Siamo sincere: in un paio di edizioni sì, ci è successo, perché cerchiamo di dare spazio a chi ha una produzione abbastanza recente da presentare e di non fare suonare troppe edizioni di seguito le stesse artiste. E ovviamente, pur non essendo un contest, i progetti che presentiamo devono soddisfare dei criteri di qualità alti anche e soprattutto nella resa dal vivo.
Ma negli ultimi anni sono molte di più le situazioni che invece ci è spiaciuto lasciare fuori dal cartellone perché non potevamo far suonare tutte.
Concludo con una domanda: Dopo 12 anni di attività cosa avete imparato della musica in Italia? Le cose stanno cambiando? Se sì, in meglio o in peggio?
Sì, le cose stanno sicuramente cambiando. Alcune in meglio, tornando alla domanda precedente intanto è evidente che ci sono più donne che sentono di poter scegliere una propria strada nella musica, alcune seguendo il processo creativo dalla scrittura alla produzione.
Come tu ben sai, resta difficilissimo professionalizzarsi, farne un lavoro, e se questo vale anche per gli uomini, per le donne ancora di più, per motivi per cui si potrebbero riempire saggi di sociologia.
Non a caso se il numero di cantautrici è salito, restano risicate le percentuali delle musiciste, ma anche delle produttrici, delle organizzatrici, delle tecniche. Molto interessanti e fondamentali i lavori delle autrici e speakers Laura Pescatori e Laura Gramuglia per farsi un’idea in merito.
Nel panorama mainstream, ci sono artiste che stanno rompendo dei tabù, che stanno contribuendo in maniera più o meno consapevole a cambiare l’immaginario, a incrinare certi ruoli di genere, e pensiamo che questo sia un bene.
Così come è un bene la possibilità data dalle piattaforme e dai social di ascoltare, conoscere e far conoscere realtà musicali un tempo inarrivabili, di creare anche delle comunità, almeno potenzialmente.
Purtroppo da quelle stesse piattaforme che permettono, sulla carta, una distribuzione quasi capillare della propria musica derivano proventi minimi per artistə ed editorə, è un problema globale.
In Italia in particolare assistiamo alla difficoltà di mantenere degli spazi per chi non si riconosce in certi linguaggi, per chi potrebbe soddisfare i gusti magari di pochi a cui paradossalmente un tempo sarebbe arrivatə, attraverso circuiti ormai compromessi come quelli dei club di musica dal vivo, dei negozi di dischi e anche di certi premi che si sono quasi completamente mainstreamizzati.
C'è un rischio di appiattimento che purtroppo non è solo una questione di gusti, anzi lo è in minima parte. Poi però ogni tanto si aprono delle radure, filtra un po’ di luce e succede che alcuni progetti che non sembrano essersi posti il problema di dover piacere a tuttə arrivino a tantə. E si fa strada un poco di speranza.
Sono comunque tempi interessanti, stimolanti, di cambiamento.