Il Maupassant che si presenta alla maggioranza dei lettori, allorché questi si imbattono accidentalmente o meno nel suo nome, è il romanziere di successo, l'autore di Bel-Ami, Mont-Oriol e di numerosi altri trionfi editoriali di fine Ottocento. Chi decidesse invece, per diletto o per necessità, di farsi largo tra la selva rigogliosa delle sue pubblicazioni, scoprirebbe anche un Maupassant più inquieto e più sfuggente, giacché, a frugarne le pagine, ci si trova a incespicare prima o poi in una serie di racconti – quelli raggruppati nel 1887 sotto il titolo Le Horla – che restituiscono l'idea di un narratore interessato a esplorare non solo il realismo in tutte le sue possibili declinazioni ma finanche le zone d'ombra che all'immediato esame realistico si contrappongono.

Le novelle inserite in questa raccolta oscillano infatti tra razionale e irrazionale, portando alla luce un conflitto verosimilmente insanabile che va ben al di là di quel registro medio del ritrattismo e della cronaca, tanto che la qualifica di «realista» con cui di norma si tenta di liquidare Maupassant diventa un'approssimazione vaga, distante dal nucleo centrale del suo problematico carattere.

È stato Alberto Savinio che, per primo, ha segnalato la complessa duplicità dello scrittore francese: «A noi questo importava dire, e che finora nessuno dei tanti che si sono occupati di Maupasant aveva detto, che a un certo momento in Maupassant nacque un altro Maupassant, e che tanta somiglianza era tra il primo e il secondo Maupassant quanto tra una città buia e una illuminata»1.

Fra le quattordici novelle di cui si compone la raccolta, quella che vi dà il titolo è la più ampia e peculiare. La genesi che la contraddistingue, d'altronde, ci porta a credere che l'autore stesso accordasse una spiccata centralità e rilevanza a questo tema. Il racconto nacque come storia breve nel 1885 e venne pubblicato con il titolo Lettre d’un fou (lettera di un pazzo) sul quotidiano Gil Blas. Successivamente, Maupassant riprese il soggetto per trarne altre due versioni intitolate entrambe Le Horla. La prima apparve nel 1886 sul medesimo quotidiano, mentre la seconda versione, molto più lunga, mantenne lo stesso titolo e trovò definitiva collocazione all’interno dell’omonima antologia dell'anno successivo. Le opere presentano tre diverse configurazioni narrative: Lettre d’un fou ha la forma del racconto epistolare; la prima versione di Le Horla è caratterizzata dalla presenza di una trama a cornice; e la terza, quella conclusiva che qui intendiamo analizzare, si presenta infine come un diario personale interrotto bruscamente.

La narrazione comincia l’otto maggio2 di un anno imprecisato attraverso il journal di un uomo facoltoso e celibe. Come molte altre storie di Maupassant, anche questa inizia in sordina e con uno stile rassicurante e piano che anticipa l'inevitabile irruzione di qualcosa, di una forza ignota che scardina le sicurezze naturalistiche e borghesi dei protagonisti aprendovi una breccia non più rimarginabile. Pochi giorni dopo, infatti, l'uomo registra già la comparsa di un primo turbamento nell'ordine naturale delle cose:

Da dove derivano queste suggestioni misteriose che mutano la nostra felicità in scoraggiamento e la nostra fiducia in debolezza? Si direbbe che l'aria, l'aria invisibile sia satura di inconoscibili Potenze, di cui subiamo la misteriosa influenza3.

Ma questo stato d'animo che si direbbe malinconico e forse transitorio assume ben presto i toni di un'ossessione più greve e tormentante: l'uomo ha la sensazione di essere osservato mentre si dedica alle consuete attività domestiche. Questa impressione prende forma per la prima volta nel suo giardino e poi, con enfasi maggiore, nella camera da letto. Di giorno, nei momenti di svago, gli pare si essere seguito e, anche se intorno a sé non scorge alcuno, avverte spesso uno sguardo estraneo e invadente; la notte, invece, si sveglia sudato e ansante, come se qualcuno avesse cercato di soffocarlo nel sonno. Nel tentativo di sottrarsi all'influsso pernicioso delle proprie suggestioni, intraprende allora un viaggio che lo tiene lontano da casa per quasi un mese. Al ritorno, malgrado inizialmente si proclami guarito da ogni male, viene sopraffatto ancora una volta dal pavor nocturnus:

Sono tornati gli stessi incubi. La notte scorsa ho sentito qualcuno accovacciato sopra di me, con la bocca contro la mia: mi beveva la vita attraverso le labbra. Sì, l'aspirava dalla mia gola, come una sanguisuga. Poi s'è alzato, sazio, e io mi sono svegliato.

La notte porta con sé anche nuovi e strani eventi: da un certo momento in poi il protagonista del racconto ritrova completamente vuota la caraffa d’acqua che ha l'abitudine di lasciare ogni sera sul proprio comodino. Da principio attribuisce il fenomeno a un eventuale caso di sonnambulismo, e così escogita un test rivelatore: ricopre la caraffa con dei panni bianchi e prima di andare a letto si sporca le mani con della limatura di piombo. Al risveglio, però, trova la caraffa sempre vuota mentre i tessuti non risultano sporchi della polvere metallica. Nei giorni successivi, trovandosi a cena da una parente, l'uomo ha poi modo di partecipare a un dibattito che verte su «quelle manifestazioni straordinarie che derivano da esperimenti di ipnotismo e suggestione». Il dialogo si muove intorno a teorie allora particolarmente in voga, le stesse che – partendo dai precedenti studi di Mesmer – vennero introdotte nel mondo accademico francese dagli studi di Bernheim e soprattutto da quelli di Charcot. L'approccio saldamente positivista di queste teorizzazioni potrebbe essere per lui un buon appiglio affinché ridimensionare le proprie angosce, ma egli, piuttosto che giovarsene, sembra scivolare invece verso il disastro e la catabasi. Tornato a casa, eccolo nuovamente preda delle più atroci e farneticanti angosce:

Ma chi è colui che mi domina, questo invisibile, questo inconoscibile, questo errante d'una razza soprannaturale? Dunque gli invisibili esistono! Allora come mai dall'origine del mondo non si erano ancora manifestati in modo preciso come fanno adesso con me? Io non ho mai letto nulla che assomigli, anche lontanamente, a quel che avviene in casa mia. Oh, se potessi lasciarla, andare via, scappare e non tornare mai, mai più! Sarei salvo, ma non posso farlo.

Come la presunta guarigione – seguita all'allontanamento dalla propria dimora – e la successiva ricaduta avevano già dimostrato, l'azione esercitata su di lui da questo inquilino arcano e fraudolento sembra essere quindi vincolata all'ambiente domestico. Sfuggirvi, tuttavia, diventa impossibile per l'uomo, quantunque provi con ogni mezzo ad allontanarsi anche per poche ore dalla casa e dai suoi dintorni più immediati. L'essere, dapprima senza nome e che in seguito assume l'enigmatica designazione di Horla, riesce non solo a fiaccarne la volontà ma persino a tenerlo avvinto all'abitazione dove si è insediato. L'epifania risolutiva, sempre che una sua conferma fosse indispensabile, arriva allorché l'uomo, avvertendo dietro di sé la presenza del nefando parassita, si gira di scatto ma non vede la propria immagine riflessa nello specchio che gli sta alle spalle, come se qualcosa, o qualcuno, vi si frapponesse. Sconvolto, incapace di sopportarne ulteriormente l'esistenza entro lo stesso spazio abitativo, decreta quindi la necessità di eliminarlo:

Ma che cos'ho dunque? È Lui, lui, Horla, che mi ossessiona e mi fa avere queste allucinazioni? È in me, diventa la mia anima; lo ucciderò!

Dalla condanna a morte alla sua messa in atto il passo è breve, e l'uomo, dominato da un furore ormai irrefrenabile, in un momento di supposta solitudine si allontana dalla propria casa con un sotterfugio e poi la dà alle fiamme, senza curarsi della servitù che vi si trova dentro. L'incendio avvolge presto la villa, ed egli osserva da lontano l'opera che dovrebbe privarlo finalmente di chi stava risucchiandogli ogni linfa:

La casa, adesso, era un rogo orrendo, un rogo magnifico e mostruoso, che rischiarava tutta la terra, un rogo in cui stavano bruciando alcuni uomini e anche Lui, Lui, il mio prigioniero, l'Essere nuovo, il nuovo padrone, Horla!

Nemmeno il fuoco, tuttavia, riesce a cancellare le ossessioni del protagonista e, con esse, quel che inesorabilmente le stimola e le nutre. Se nella versione del 1886 la minaccia sembrava provenire infatti da una creatura non ben definibile, che vagava a suo capriccio per il mondo e con la sua presenza poteva minacciarne gli abitanti, nella redazione definitiva del racconto la tragedia dell'uomo si interiorizza e tutto parrebbe fermentare all'interno della sua mente compromessa. La conclusione della vicenda diventa allora ineluttabile e il suicidio che fra le righe vi si annuncia una 'soluzione' che il lettore, consapevolmente o meno, aveva forse ipotizzato già da tempo:

No... no... Non c'è dubbio, non c'è alcun dubbio... Non è morto... Allora... allora... Sarà dunque necessario che io muoia.

L'intensità e la progressione drammatica fanno di questa novella un'opera esemplare e perfettamente compiuta nel corpus narrativo del suo autore. Accantonando a tratti le ansie naturalistiche di verosimiglianza, intervallate come sono da quei momenti di pausa durante i quali si affaccia la speranza di un esito diverso e meno rovinoso, Maupassant attualizza per certi versi il tema un po' abusato della casa infestata: è evidente che la malevola efficacia di Horla – qualunque cosa essa rappresenti – sia legata in qualche modo al perimetro delle mura domestiche e che un allontanamento da esse non sia quindi ipotizzabile. Ciò che tiene avvinto l'uomo alla dimora non permetterebbe infatti alcun distacco davvero significativo, e quindi alcun suo processo di guarigione. Ma la maledizione che grava sulla casa altro non sembra che una proiezione e una sovrastruttura delle nevrosi – se non addirittura delle psicosi – che agitano la mente di chi si crede ghermito dall'invisibile Horla.

Cosa rappresenti esattamente questa essenza tormentatrice è stato, dalla pubblicazione del racconto in poi, il cruccio di buona parte della critica. Neanche l'etimologia pare chiarirne in maniera sostanziale l'accezione, e l'ipotesi più accreditata, assieme a quella della creazione da parte di Maupassant di un nome soltanto evocativo, è quella di una contrazione di hors-là (là fuori), a rimarcare il concetto dell'alterità, di qualcosa che si pone al di fuori e che risulta estraneo al mondo conosciuto. Che sia vera o meno quest'ultima supposizione, la natura di Horla, sulla scorta della nascente psicologia sperimentale di fine Ottocento e dei suoi sforzi per essere ammessa ufficialmente tra le discipline accademiche, non sembra potersi allontanare da quella dell'ossessione, di un pensiero intrusivo che prende vita nella mente del protagonista, facendone scaturire una creatura inedita, diversa e plausibile – un parassita immateriale, un quasi-doppio, un lutulente agglomerato di paure e bassi istinti? – in grado di sfamarsi a scapito di chi ne è diventato vittima e alimento.

In molti si sono chiesti se gli sforzi compiuti dall'autore per giungere alla stesura definitiva del racconto celassero o meno il tentativo di narrare le proprie angosce e di esorcizzarle attraverso la scrittura. Chiunque abbia un minimo di familiarità con la biografia di Maupassant sa che la sua fu una personalità inquieta e fragile, accompagnata per di più da una salute spesso cagionevole. Meno noto, forse, è il tentativo di suicidio che il 7 gennaio 1892 lo portò a essere rinchiuso in una clinica alle porte di Parigi, dalla quale, a causa di un'ormai irreversibile «decomposizione dell'anima»4, non uscirà più. Si tratta di dati interessanti, utili non soltanto al biografo e allo specialista, ma pur sempre insufficienti a una seria valutazione critica del testo preso qui in esame. La sua grandezza, in fondo, sta anche nel torbido mistero che da sempre lo circonda e in quel sentimento di assolutizzazione dell'angoscia fino ad allora inesplorato dalle varie letterature occidentali. Niente di meglio che le parole dello stesso Maupassant potrebbero allora far da chiosa – ammesso che si possa – alle pagine attraverso cui ci ha consegnato questo intangibile mistero detto Horla: «Lo scrittore racconta quel che ha provato e soprattutto come l'ha provato, lasciando percepire il turbamento profondo del suo animo, l'angoscia di trovarsi di fronte a ciò che non può comprendere e quella sensazione straziante di un orrore che avviene davanti a noi e svanisce come un soffio sinora sconosciuto che ci arriva da chissà quale mondo»5.

Note

1 Alberto Savinio, Maupasant e “l'Altro”, Milano, 1960 (pubblicazione postuma).
2 È probabile che la scelta della data non sia casuale, giacché coincide con quella della morte di Gustave Flaubert di cui Maupassant fu discepolo e amico.
3 Trad. di Lucio Chiaravelli.
4 La definizione è dello stesso Maupassant. Si trova nella novella La Peur pubblicata nel 1884 all'interno della rivista Le Figaro.
5 Guy de Maupassant, Le Fantastique, su Le Gaulois, 7 ottobre 1883. Il commento si riferisce all'opera dello scrittore russo Turgenev di cui Maupassant era ammiratore.