Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo […]. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!

(Friedrich Nietzesche, La gaia scienza)

Un titolo come L'inquilino del terzo piano non mancherà di proiettare nella mente della maggior parte dei lettori – cinefili e non – un qualche emblematico frammento del celebre film di Roman Polański. È uno di quei casi tutt'altro che rari in cui, nell'immaginario collettivo, la fama di una pellicola finisce per sovrastare quella del libro di cui è adattamento. Uscito nel 1976, il lungometraggio del regista di origini polacche traspone infatti un romanzo pubblicato da Roland Topor ben dodici anni prima e intitolato Le locataire chimérique. In Italia era stato tradotto inizialmente come L’inquilino stregato, prima di assumere il titolo definitivo con cui nel nostro paese è poi diventato famoso anche sul grande schermo1.

A quanti hanno avuto modo di familiarizzare con il film di Polański non sarà sfuggito il suo carattere surreale e foscamente onirico, lo stesso di cui si trova gravido il romanzo, in piena congruenza con le esperienze coeve del suo autore. Nel 1962, infatti, Roland Topor era stato tra i fondatori del Mouvement Panique assieme a Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowsky, collettivo neo-surrealista ispirato in parte al cosiddetto teatro della crudeltà e nato soprattutto per destabilizzare il fruitore, sfuggire alle sue interpretazioni più immediate e liberarne – psicoanaliticamente, si potrebbe azzardare – le energie distruttive.

Tracciare le coordinate biografiche di Topor richiederebbe un lavoro a parte, tanto è densa e variegata la sua esperienza artistica: la letteratura fu uno soltanto dei suoi campi di ricerca e applicazione, come lo furono l'illustrazione, la sceneggiatura, la drammaturgia e altro ancora.

Il romanzo preso qui in esame è un'opera grottesca, allucinata, circolare, ossessiva e imprevedibile, un vortice che segue leggi proprie e poco manifeste, un cumulo di simboli e nonsense, di serrature prive sia di chiavi che di efficaci grimaldelli.

Trelkowsky, un impiegato dal carattere mite e timoroso, è costretto a cercare un nuovo appartamento a Parigi. Grazie a un'imbeccata, ne trova uno abitato fino a pochi giorni prima da una ragazza, Simone Choule, la quale ha tentato il suicidio gettandosi dalla finestra di casa. L'uomo si reca quindi in ospedale, nella speranza di ottenere da lei alcune informazioni sull'alloggio, ma Simone è in fin di vita, completamente bendata e incapace di parlare – benché, alla vista dell'ospite sconosciuto, sia preda di una crisi isterica. Dopo il decesso della donna, Trelkowsky entra in possesso dell'appartamento e, sotto le insistenze degli amici, organizza subito una festicciola inaugurale che finisce per infastidire i vicini. A redarguirlo, il giorno dopo, è il bilioso proprietario, il quale minaccia dei rapidi provvedimenti. A partire da questo momento, Trelkowsky sviluppa una morbosa agitazione nei confronti di ogni possibile rumore che dia noia agli inquilini del palazzo, mentre questi – che sono tutti anziani e di maligno aspetto – sembrano prenderlo di mira con angherie gratuite e rimbrotti. Parallelamente, l'uomo si accorge che i negozianti della zona iniziano a trattarlo come fosse la defunta Simone, quasi a volerne rimpiazzare l'immagine o l'identità. Sempre più confuso, Trelkowsky comincia a interrogarsi allora sulla donna morta e sulle contingenze che l'hanno portata a togliersi la vita, ma è forse troppo tardi e il discrimine tra realtà e finzione è già venuto meno: di lì a poco, risvegliandosi da un sonno affannoso, si ritrova vestito e truccato come la ragazza che l'aveva preceduto nella casa. L'oggettività, a questo punto, si sfalda gradualmente ma in maniera inappellabile, ghermita da sempre più febbrili apparizioni:

Un cavaliere aveva fatto irruzione nel cortile. Non si poteva scorgerne il viso perché era mascherato e nascosto dall'ombra di un immenso cappello di feltro granata. Un corpo era disteso di traverso sulla groppa del cavallo. […] Il cortile si riempì di gente. Dei vicini circondarono l'individuo mascherato e parlarono con lui a cenni incomprensibili2.

L'ossessione del protagonista fa tutt'uno con le imperscrutabili macchinazioni dei condomini, e i suoi sospetti ricadono improvvisamente anche su Stella, una ragazza che aveva conosciuto al capezzale di Simone e che in seguito gli aveva dimostrato una certa tenerezza. Non solo il malevolo palazzo incombe su Trelkosky, quindi, ma il complotto sembra assumere proporzioni di maggior rilievo e tali da portare l'uomo al totale isolamento. La congiura dei vicini e dei loro alleati eventuali gli appare chiara: spingerlo a diventare Simone Choule fino all'emulazione del suo gesto estremo. Malgrado questa intuizione, la sorte di Trelkowsky viaggia ormai su un percorso obbligatorio e senza scarti:

Era giorno inoltrato quando il corpo di Trelkowsky volò attraverso la finestra. Colpì la vetrata nuova, che andò in mille pezzi, e si schiantò al suolo, rimanendo in una posa grottesca.
Era completamente vestito da donna. L'abito sollevato sulle cosce lasciava intravedere le giarrettiere. La faccia era truccata, la parrucca, scompigliata dalla caduta, nascondeva la fronte e un occhio.

Per una sorta di ambigua insorgenza del mito dell'eterno ritorno, il ciclo si chiude – o meglio, riparte – nel disarmante epilogo del libro, dove una prospettiva diversa e speculare rievoca il medesimo frangente: l'uomo vede se stesso davanti al proprio letto d'ospedale nel tentativo di ottenere qualche informazione in merito all'appartamento. La sua immedesimazione in Simone Choule è adesso completa e irreversibile, e Trelkovsky, dal fondo del bendaggio che ne fa una mummia ancora in vita, non può far altro che urlare impotente e disperato, mentre – in un hoffmanniano gioco di specchi – guarda l'altro sé ricominciare dal punto di partenza.

Come si evince dalle brevi citazioni, il romanzo gode di uno stile narrativo essenziale, paratattico, in piena armonia con la normalità e verosimiglianza della situazione iniziale. Via via che si procede nella lettura, e senza che venga meno questa semplicità formale, il ritmo diviene più serrato, a tratti persino frenetico, in una progressione di eventi allucinati e impenetrabili che termina con l'angosciosa circolarità di un loop. Impossibile attribuire un significato univoco a questo anello temporale, così come alla vicenda nella sua globalità. Trelkovsky potrebbe essere “semplicemente” un nevrotico, un soggetto che tende a sviluppare paranoie e manie persecutorie; oppure cadere in uno stato di esaltazione e delirio perché ossessionato dall'aura sinistra del palazzo e dai vicini; o ancora non essere mai esistito veramente, rigurgitato – come un sogno o una visione – dall'inconscio di Simone Choule.

In definitiva, davanti a un libro simile ci si trova giocoforza a fare gli esegeti e i solutori di enigmi, tanto che le sue plausibili decifrazioni potrebbero moltiplicarsi ancora, e di molto. Ma la caratteristica che lo rende audace e intenso sta proprio nella sua impermeabilità, nel suo paradossale assetto che il lettore deve necessariamente accogliere come illogica realtà dei fatti o come spettro e proiezione della realtà stessa. È qui che il lettore deve arrestarsi, sul margine del baratro che si spalanca oltre le attitudini dei sensi, al di là dei significati convenzionali e della quotidianità.

Note

1 Si noti che il titolo originale scelto invece da Polanski per il film, in ossequio a quello del romanzo, è semplicemente Le Locataire.
2 Questa citazione e la successiva sono tratte da Roland Topor, L'inquilino del terzo piano, Milano, Bompiani, 2021.