Non è la canzone di Al Bano e Romina Power e nemmeno la “cara e celeste nostalgia” di Riccardo Cocciante o quella di Kostantinos Kavafis di Candele, una “penosa riga di candele spente” destinata inevitabilmente ad allungarsi. E pure se il titolo ricorda il celebre film di Andrej Tarkovskij del 1983, siamo in tutt’altro mondo e tutt’altra storia. Anche se di amore sempre si parla.
Certo è che la nostalgia di un tempo che fu, che, nei tempi, era diventata rimembranza per Giacomo Leopardi, ‘spleen’ per Charles Baudelaire e nostalgia del futuro per Robert Musil, è spesso al centro dell’arte cinematografica, fin dal pluripremiato Nuovo Cinema Paradiso.
Il presente manca, è assente, deformato dai ricordi di un passato magari non sempre roseo ma fatto di forti legami, ricordi e tanta gioventù. Nostalgia, di Mario Martone, ha tutti questi ingredienti ed è una favolosa opera d’arte, per quanto spiazzante.
Adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo del 2016 di Ermanno Rea e con protagonista un sempre poliedrico Pierfrancesco Favino, il film è stato presentato in concorso al Festival di Cannes 2022, ha vinto 4 Nastri d’argento, è stato selezionato per rappresentare l’Italia ai Premi Oscar 2023 nella sezione miglior film internazionale ed è stato designato Film Europeo dell’anno al 27° Capri, Hollywood the International Film Festival. Non da ultimo, il David di Donatello 2023 a Francesco Di Leva come miglior attore non protagonista.
Ambientato nel rione Sanità, un mondo sconcertante e pieno di contraddizioni ma vivo, pulsante e affascinante, come lo era stato ne Il bambino nascosto di Roberto Andò.
Napoli e quel rione vengono percorsi in lungo e in largo grazie alla fotografia di Paolo Carnera, luoghi da sempre oggetto di immaginario letterario, teatrale e cinematografico, divenuti ‘ombelico del mondo’, dove recentemente anche lo scultore Jago ha aperto il suo museo nella chiesa di Sant'Aspreno ai Crociferi. Sono tanti i luoghi riscoperti: l’antica porta San Gennaro, il mercato del borgo Vergini, vico Lammatari degli antichi fabbricati di amido, la Basilica di Santa Maria della Sanità, il cimitero delle Fontanelle e le catacombe di San Gennaro e San Gaudioso, con un antico affresco che mostra una donna africana. L’Africa, madre della civiltà, è un ‘fil rouge’ nascosto.
Il rione è un personaggio reale, uno dei veri protagonisti, e Martone cattura e rapisce lo sguardo dello spettatore con inquadrature tattiche, campi lunghi ed empatiche camminate in soggettiva del protagonista Felice (Pierfrancesco Favino), mentre rivede ogni angolo della sua città con occhi nuovi, quasi fosse la prima volta. Lo spettatore è coinvolto in una sorta di pedinamento serrato, in una camminata ‘deleuziana’, un ‘andare a zonzo’ come lo si andava per Mosca. Dove camminare - e Martone, in un’intervista, confessa che molti suoi film sono realizzati camminando - significa incontrare. Una città inizialmente cupa, che rispecchia la confusione emotiva dello stesso Felice ma che poi diventa più luminosa. Una città che si attacca addosso.
Per altre terre andrò, per altro mare. Altra città, più amabile di questa, dove ogni mio sforzo è votato al fallimento, dove il mio cuore come un morto sta sepolto, ci sarà pure. (…)
Non troverai altro luogo non troverai altro mare. La città ti verrà dietro. Andrai vagando per le stesse strade. Invecchierai nello stesso quartiere. Imbiancherai in queste stesse case. Sempre farai capo a questa città. Altrove, non sperare, non c'è nave non c'è strada per te.
Kostantinos Kavafis l’egiziano sembra (ancora) parlare. Egitto, quel legame antico.
È qui, in questa Napoli dolente e meravigliosa, che Felice torna, per riabbracciare la madre anziana, Teresa (Aurora Quattrocchi), dopo quarant’anni di assenza e lontananza, partito per sfuggire a un destino che poteva essere molto diverso. Un incontro di grande commozione e intimità, quello con la madre, esile pelle e ossa, sola, indifesa, scoraggiata dalla vita e dal mondo. Una sorta di Pietà dove, per tornare a Jago, il Figlio abbraccia teneramente la Madre. Un abbraccio che sa di eterno.
Con l’allora inseparabile compagno di bravate, il quasi fratello Oreste Spasiano (un rancoroso e cupo Tommaso Ragno, visto in Rapiniamo il Duce, Siccità, Il Cattivo poeta, e nel più recente My Soul Summer, per citarne alcuni), Felice aveva commesso qualche piccolo crimine. Fino alla tragedia quasi annunciata che lo aveva costretto a fuggire all’estero, prima in Libano e Sudafrica e poi al Cairo dove, convertito all’Islam, vive, da ricco imprenditore felicemente sposato.
Passato e presente si intrecciano anche grazie all’abile utilizzo di fotogrammi del ricordo immessi con un formato di pellicola diverso e di colore sgranato, ramato, quasi una Polaroid.
Immersi in un dedalo di vicoli stretti e popolosi, le case buie che danno sulla strada - quei bassi che ricordano loculi -, i saliscendi e i palazzi grigi attraversati da pennellate di colore hanno molte analogie con Il Cairo. Anche le catacombe riportano alla cairota “città dei morti”, incredibile agglomerato urbano densamente popolato, suddiviso in quartieri, sviluppatosi all’interno del cimitero islamico di Al-Qarāfa, la necropoli musulmana più antica della città e dell’intera nazione. Un luogo dove la vita convive con la morte, quella di ogni tempo, quella di ogni giorno.
In questo labirinto, dove dalle tenebre emerge luce, c’è chi parte e c’è chi resta, chi cambia il proprio cammino per tentare di emergere da fango e pozzanghere che paiono non asciugarsi mai.
Ma Felice non ha dimenticato il vecchio amico, colui che oggi tutto il quartiere teme, il terribile boss ‘O Malommo’, ‘cuore di tenebra’ che ricorda il colonnello Kurtz di Apocalypse Now. Vuole incontrare quell’uomo velenoso che spesso si vede di spalle, incappucciato, come un vigile ragno al centro della ragnatela, in attesa della preda, in perenne agguato. Il faccia a faccia, in napoletano stretto, sarà magistrale. Una sorta di partita a scacchi dalle mosse coperte dove lo spettatore resta combattuto, smarrito: il momento, di estrema tensione, è ricco di pathos e porta con sé sentimenti contrastanti. Il ritmo è dinamico, si alternano profonde scene dialogiche a silenzi riflessivi, piani ravvicinati ad ampie visuali. Ci si chiede chi vincerà la partita.
Tutto è nostalgia: per la terra che si è dovuta lasciare, per quel sentirsi sempre un po’ straniero, per una lingua italiana biascicata che si mescola a una forte cadenza straniera, per la gioventù perduta, per quel che è stato e quel che poteva essere, per una Napoli intensa protagonista, per una madre che se ne è volata via, per una bellezza che se ne è andata, per un’amicizia che si è come sciolta al sole. Legami che furono. Nostalgia e volontà di riappropriarsi di quella parte più autentica di sé, quella che, come la città, “ti verrà dietro”, sempre. Quel lontano sempre presente.
Fare pace con il proprio passato non sarà facile, in un presente fatto di complesse ragnatele dove poco è cambiato ma dove qualcuno, come don Luigi Rega (Francesco Di Leva), cerca ostinatamente di modificare le carte in tavola e i giochi, di trasformare la disperazione in speranza. Una città che resiste a molte trasformazioni, quasi immobile, se non fosse per chi si divincola e danza al ritmo di musiche dal sapore orientale. Perché, in fondo, si guarda sempre a Oriente.
E se perdersi vuol dire tornare, (ri)trovarsi, in una città dove la casa e la strada sono spesso una cosa sola, quando si decide di rimanere, si è deciso. Costi quel che costi.
La conoscenza è nella Nostalgia. Chi non si è perso, non ne possiede.
(Pier Paolo Pasolini)
Nostalgia, di Mario Martone, con Pierfrancesco Favino, Tommaso Ragno, Francesco Di Leva, Aurora Quattrocchi, Nello Mascia, Sofia Essaidi, Emanuele Palumbo, Salvatore Striano, Virginia Apicella, Italia, Francia, 2022, 117 minuti.