Non te ne accorgi nemmeno, nel brandire il coltello della tua aggressività, che riveli la tua infinita fragilità. Non ti rendi conto che la tua prepotenza è pre-potenza, cioè assenza di potenza e quindi barcollante debolezza. Non comprendi che ogni tuo sopruso, ogni tua ributtante angheria, ogni tuo vergognoso tentativo di coercizione è la dimostrazione della tua sconfitta. Eppure la tua violenza ferisce, come ogni violenza. Incide la carne, lacera il corpo e la mente altrui, genera insonnie perenni in chi subisce il tuo comportamento, agita fantasmi che affiorano durante il giorno e vagano indugiando tra le sinapsi e il cuore, lesiona i corpi delle persone sulle quali scarichi le esplosioni della tua veemente aggressività. Per te quelle esplosioni passano, diventano nulla, si dissolvono nel tempo di un amen, evaporano dopo che si sono scaricate: pagina voltata, continuiamo a sorridere, pronti al prossimo scherzo innocente. Negli esseri umani, sì umani, oggetto della tua violenza, però, le tue mani alzate agitate nell’aria sono pugni che lasciano lividi sulla pelle, occhi pesti, vene che sanguinano, ecchimosi persistenti sull’epidermide della vita. La violenza è così, stupida e ingiusta, latrice di sciagure che perdurano per anni, talvolta per sempre. La violenza è brutale e rabbiosa, tragedia messa in scena sul disgraziato palcoscenico ligneo sul quale si rappresenta la danza dell’esistenza. Le parole della violenza sono parole oscene, non vorremmo ascoltarle mai, non vorremmo scovarle in nessun libro a meno che non venga letto in funzione apotropaica, per liberarci dei fantasmi, dei coltelli, dei pugni sferzati negli stomaci. Le parole della violenza sono parole rabbiose, segni di ferite ancestrali che producono segni di nuove ferite. È il ciclo della vita che è intrisa anche di morte.
La violenza che genera violenza
Scriveva la filosofa tedesca Hannah Arendt (che sia benedetto il suo nome): “La pratica della violenza, come ogni azione, cambia il mondo, ma il cambiamento più probabile è verso un mondo ancora più violento”. La violenza genera altra violenza secondo colei che ha ben descritto le atrocità della prima metà del Novecento e onde nere che queste hanno provocato nei decenni successivi. L’aggettivo violento da cui deriva il sostantivo violenza risale alla prima metà del Trecento. Il genitore è il latino violentus che voleva dire ‘impetuoso’ e ‘violento’, derivato a sua volta dal sostantivo vīs che era la ‘forza’, la ‘violenza’. Da vīs ha preso origine anche il verbo violare, che vuol dire sia usare la violenza sia trasgredire, come quando si viola una norma, un precetto, un dovere o un segreto. La violenza è in effetti anche una violazione di un principio, il principio dell’umanità che è insieme forza e fragilità. Il poeta Johann Wolfgang Goethe aveva scritto: “Chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca nella verità e nella forza”.
Fatti non foste a viver come bruti
La violenza è brutalità e la nostra mente associa spesso questa parola alla bestialità. In realtà le loro origini sono diverse benché a partire dal Medioevo il bruto sia diventato colui che vive e si comporta come una bestia. È Ulisse, fiammella punita assieme a Diomede da Dante Alighieri che lo colloca all’inferno, a pronunciare la sua “orazion picciola”, il capolavoro di esortazione che rivolge ai compagni perché possano oltrepassare i limiti dell’ignoto e varcare le Colonne d’Ercole. In quell’orazione, il re di Itaca dantesco così diverso dall’eroe omerico ricorda ai marinari di non essere fatti a “ viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza ”. Come se la virtù e la conoscenza fossero l’opposto della brutalità. E infatti la maggior parte dei commentatori danteschi associa quella brutalità ai comportamenti bestiali, non umani, privi di virtù e privi di conoscenza. La parola brutalità però in origine non conteneva in sé il verso della bestia. La parola bruto è un prestito dal latino brūtus che significava ‘sciocco’, e ‘insensato’. Il significato originario del latino brūtus è ‘tardo, grave, pesante’ e la sua forma con b- indica che si tratta della variante dialettale osca (e cioè campana, della Campania pre-romana) del latino gravis , cioè ‘pesante’. Quel gravis ha partorito in italiano molti lemmi, tra questi la gravità e anche la grevità, cioè l’essere pesanti, la gravidanza e l’aggravio. Nel latino medievale la parola bruto ha acquisito il significato di ‘privo di ragione’ come attributo dell’animale contrapposto all’uomo. La pesantezza dunque come attributo dell’animalità. Il suo opposto, la leggerezza, è forse attributo degli esseri umani quando sono vivi.
Gli aggressivi che non avanzano
Vado, passeggio, cammino. Questo significava il latino il verbo irregolare grădi che all’indicativo presente assumeva la forma grădior e al perfetto, quindi al passato, diventava gressus sum (con la “e” al posto della “a” di gradi). Verbo bizzarro e degno di attenzione, questo grădi : intransitivo, che cioè non può avere un complemento oggetto, e deponente, che cioè ha una forma passiva ma un significato attivo. Procedo, avanzo, mi muovo. Per indicare che lo faccio in una direzione posso aggiungere una particella iniziale ad-. Da questa costruzione deriva tutta la nostra aggressività. Quando una persona è aggressiva tende ad aggredire, verbo che deriva dal latino aggrĕdi che voleva dire ‘affrontare’, ‘assalire’, per l’appunto da grădi ‘avanzare’ con il prefisso ad-. Nelle esplosioni di aggressività però le persone non avanzano, restano immobili nei loro fumi e nelle loro fiamme. Spiegava il filosofo cinese vissuto nel sesto secolo avanti Cristo Lao Tse: “Il buon guerriero non è aggressivo, un buon combattente non si lascia prendere dall’ira. Chi sa vincere non ha bisogno di dar battaglia, chi sa guidare gli esseri umani si mette al loro servizio”. E aggiungeva nel secolo scorso il Mahatma Gandhi: “L’assenza di paura non significa arroganza o aggressività. Quest’ultima è in sé stessa un segno di paura. L’assenza di paura presuppone la calma e la pace dell’anima”. Ecco l’aggressività è una pessima forma per rivelare al mondo la mancanza di pace nella propria anima
Il vento impetuoso della veemenza
“Ricordo ancora l’impressione che mi fece, quella notte, l’improvviso spettacolo della natura quasi tutta in fuga, nell’urlante veemenza del vento”. Nella novella Quand’ero matto (1902), lo scrittore siciliano Luigi Pirandello descrive il vento dotato di una “urlante veemenza”. In effetti la veemenza ha la potenza di un urlo, riesce a far sobbalzare chi la subisce, scardina le porte della sobrietà di chi la esercita, come un vento impetuoso deciso ad abbattere tutto ciò che trova nella sua traiettoria. Secondo il linguista Alberto Nocentini, l’analisi più immediata del latino vehemens consiste nel vedervi un derivato di mens cioé di ‘mente’ con il prefisso negativo vē- sul modello di dē-mens . ‘privo di ragione’, dove la grafia vehe- sarebbe dovuta a un accostamento paretimologico con vehĕre ‘trasportare’, da cui la parola italiana veicolo. Ecco nella veemenza si viene trasportati, ci si allontana dalla saggezza e si perde un po’ la testa, diventando dementi, quel tanto che basta per non capire a fondo i danni che la veemenza genera nei cuori e nelle menti di chi la subisce.
Le angherie, i soprusi, le sopraffazioni
Chi subisce un’angheria, patisce una vessazione, un atto ingiusto, un sopruso, una sopraffazione. E notiamo che le ultime due parole sono introdotte dalla particella sopra-, condizione che pone chi è artefice di angherie in una condizione sopraelevata, di distacco, di sguardo dall’alto della propria potestà. L’angheria (o angaria come si diceva un tempo) è una forma sottile di violenza. Questa parola indicava in passato una prestazione forzata imposta dalla pubblica autorità. Poi è passata a definire genericamente oneri di lavoro e prestazioni coattive che hanno assunto spesso un carattere vessatorio e oppressivo. Per diritto di angaria si intende la facoltà riconosciuta dal diritto internazionale a uno Stato, in tempo di guerra o di pericolo, di requisire navi, aerei, materiale ferroviario e altri mezzi di trasporto appartenenti a cittadini di altri Stati ma che si trovano nell’ambito della sua giurisdizione. La parola latina angarīa (m) stava appunto a indicare un ‘obbligo di fornire mezzi di trasporto’, una ‘marcia forzata’, un ‘lavoro punitivo’. Il sostantivo latino derivava a sua volta dal greco angareía che voleva dire ‘servizio di trasporto’. Di angherie scrive anche Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi: siamo nel capitolo dodicesimo, quello in cui Renzo Tramaglino è a Milano e assiste alla rivolta del pane, ai tumulti conseguenti alla carestia scoppiati di fronte ai forni. La scena è proprio di rivolta popolare: “Gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie”. I simboli sempre vanno abbattuti per fare spazio alle nuove stagioni.
Il facinoroso che fa
Chi commette violenza è in qualche caso un facinoroso, un po’ ribelle, un po’ esaltato, un po’ pronto a istigare al crimine, senza dubbio prepotente. Il sostantivo è un prestito dal latino facinorōsus che significava ‘scellerato’, derivato a sua volta di făcĭnus -ŏris che in origine voleva dire semplicemente ‘azione’, ‘fatto’ (dal verbo făcĕre , cioè ‘fare’, ‘compiere’) e poi ha assunto il significato di ‘misfatto’, ‘delitto’. Il facinoroso, dal punto di vista del senso originario della parola, era stato semplicemente un facitore, una persona dedita al fare, poi, nei secoli, s’è lasciato andare e s’è perso nel malaffare.
Le parole non ostili: un manifesto
Di fronte alla violenza e alle parole della violenza si rimane senza parole. Ma c’è una speranza, accanto al distacco totale e alla dissociazione da chi usa violenza: c’è un manifesto, il manifesto della comunicazione non ostile che in dieci punti che aiuta a vivere meglio e a far vivere meglio i propri figli, in un mondo che speriamo diventi più giusto e meno spietato. Ecco i dieci punti.
Virtuale è reale Dico e scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona.
Si è ciò che si comunica Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano.
Le parole danno forma al pensiero Mi prendo tutto il tempo necessario a esprimere al meglio quel che penso.
Prima di parlare bisogna ascoltare Nessuno ha sempre ragione, neanche io. Ascolto con onestà e apertura.
Le parole sono un ponte Scelgo le parole per comprendere, farmi capire, avvicinarmi agli altri.
Le parole hanno conseguenze So che ogni mia parola può avere conseguenze, piccole o grandi.
Condividere è una responsabilità Condivido testi e immagini solo dopo averli letti, valutati, compresi.
Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare Non trasformo chi sostiene opinioni che non condivido in un nemico da annientare.
Gli insulti non sono argomenti Non accetto insulti e aggressività, nemmeno a favore della mia tesi.
Anche il silenzio comunica Quando la scelta migliore è tacere, taccio.
Sì, quando la scelta migliore è tacere, io responsabilmente taccio.