Se non avete mai avuto la strana sensazione di aver ingoiato una stella prima di ritrovarvi nella spenta contrada di questo pianeta, non accostatevi a Luigi Pirandello. La sua luce potrebbe offendervi.
La sua vita è stata, infatti, a suo dire un «involontario soggiorno sulla terra» e tra i suoi appunti possiamo leggere i termini con cui il sommo scrittore siciliano descriveva l’inizio di questo suo esilio:
Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano.
Il 28 giugno del 1867 Luigi Pirandello nasce nella villa di campagna “Il Caos”, nome più che appropriato per le attività minerarie dell’azienda di famiglia impegnata nel commercio dello zolfo. E se, come crediamo, tutto è simbolo e niente è per caso, l’autore dovette trarre più di una semplice ispirazione da quel mondo sotterraneo che così bene rispecchiava le dinamiche arcane con cui luce e buio si avvicendano, dinamiche per cui la prima con fatica irriducibile viene estratta dal secondo.
Quando Ciàula scopre la luna non è del buio della solfara che ha paura, ma del «bujo vano della notte». La «tenebra fangosa» della solfara, dice il narratore, non gli fa paura neanche quando «qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie» quelle che si stagliavano come «ombre mostruose».
Quando il piccolo caruso¸ atterrito al pensiero della «sterminata vacuità» della notte che lo attende all’uscita della miniera, si ritrova però al suo cospetto, a sorprenderlo è uno sconosciuto chiarore, il chiarore argenteo e confortante di una luna «ignara» che il ragazzo vede come in una prima volta.
La notte là fuori ha fatto per Ciàula, senza sforzo, ciò che la miniera lì dentro, tante volte, gli ha chiesto con dolore: cavare dalla sua nerezza l’epifania della luce. Dallo zolfo rovente, Ciàula – che in siciliano significa corvo - trae infine la fresca luna.
Che Ciàula avesse una tale familiarità con l’ombra del sottosuolo da non temerne più la tenebrosità è una lettura possibile. Ma per comprendere a fondo la vicenda del caruso di miniera, bisogna forse far capo ad un altro e celebre passo della narrativa di Pirandello, quello in cui, all’interno de Il fu Mattia Pascal, l’autore espone per bocca di Anselmo Paleari, la cosiddetta “lanterninosofia”.
Secondo questa teoria, ciascuno di noi viene al mondo con la dotazione di una luce, come se tutti fossimo «povere lucciole sperdute». Se questa luce fosse infinita, come la vita universale da cui in fondo proviene, non ci sarebbe ombra. Essa, invece, nel mondo delle forme, delle contingenze del tempo, dello spazio e di tutte le loro costruzioni, funziona come una lanterna, anzi un “lanternino”.
Il raggio di luminosità di un simile oggetto, si sa, non può che essere limitato e ciò che ne deriva, paradossalmente, è che proprio quella luce che tutti sentiamo dentro come ciò che dà significato e senso ai nostri sentimenti, ai nostri pensieri e ideali, anche i più nobili, proietta un «cerchio d’ombra fittizia» che invece di unirci ai lanternini di tutti gli altri, ci fa percepire l’angoscioso e problematico senso di separazione. E, sempre per paradosso, conclude Paleari, sarà la morte, cioè il soffio che spegne la lanterna, «giorno fumoso della nostra illusione», a farci comprendere che il buio non esiste e a restituirci all’unità con la vita universale.
Perché noi non siamo, dice Pirandello, «come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive». Noi non siamo come la natura che non percepisce altro che sé stessa (la luna ignara…) e non ha perciò motivo di conoscere conflitti e nemici.
Quel sentimento interno, che si esprime nella metafora di una piccola lanterna, nell’essere umano non è puro “sentire”, come negli elementi della natura, ma è una forma di identificazione con ciò che proviamo, vogliamo, crediamo. Un sentimento contaminato da quelle che sono le «vane forme della nostra ragione». Ideali, certo, sentimenti: sono cose belle e buone. Da questi in fondo derivano i “lanternoni” con cui si accendono le epoche. «In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore».
Eppure, è la luce a procurare intorno la grande ombra. Ed ecco che di volta in volta, di epoca in epoca, gli uomini si accendono di diverse “fiamme”. Sicuri, trionfanti si assiepano accanto a chi condivide lo stesso lumicino. Si infervorano negli ideali, si commuovono nei sentimenti, ma tutto in loro, ideali e sentimenti, ci vuol dire Pirandello, rimane “deperibile”. Gli uomini traggono la luce dalla lanterna che è in loro e perciò si adombrano di fronte alle luci altrui che non illuminano anche il loro spazio. Le forme necessarie, che la vita impone al flusso interno dell’anima, sembrano convertire in ciascun uomo la lucciola smarrita, che non sa da dove viene, in lanterna che pretende invece di sapere dove andare.
Di che tipo di luce, dunque, ci sarebbe bisogno? La risposta l’autore la cela nella poesia di Niccolò Tommaseo che fa citare al signor Anselmo:
La piccola mia lampa/ Non, come sol, risplende, / Né, come incendio, fuma; / Non stride e non consuma, / Ma con la cima tende/ Al ciel che me la diè. / Starà su me, sepolto, / Viva; né pioggia o vento, / Né in lei le età potranno; /E quei che passeranno /Erranti, a lume spento, / Lo accenderan da me.
La lampa invocata dal poeta ha una qualità particolare. «Olio sacro» chiosa il narratore. Il suo fuoco non risplende come quello del Sole e non è destinato perciò a consumarsi. L’atteggiamento che ha questa fiamma è molto composto, diremmo naturale: con la sua cima si limita infatti a tendere verso il cielo da cui proviene. Niente potrebbe estinguerla. Non vento, né pioggia né tempo. Meno che mai la morte. Gli erranti stessi potranno attingere alla sua fissità per accendere sé stessi.
Venuti al mondo come lucciole, cerca di dirci Pirandello, riusciamo al massimo a brillare come lanterne. La lucciola sperduta, venuta da un altrove, si incendia con ciò che vede nel chiarore offertole dalla propria prospettiva limitata. Così non riesce a brillare più in là della lanterna di un ideale e di un sentimento. E così brillando, prima si separa, poi si consuma, quindi si spegne.
Chi invece non trae il buio dalla luce, ma la luce dal buio, come da una “sterminata” profondità, in un percorso esattamente inverso rispetto a quello della lanterninosofia, è Ciàula. Dopo il lungo tempo trascorso nel ventre della miniera, il ragazzo supera infine i fumi sulfurei di un giorno tenebroso per ascendere e godere del fresco chiarore della luna notturna. E ciò che per lui era il “dentro” all’improvviso diventa il “fuori”. La notte diventa giorno, il giorno notte. Il caos ordine. E tutto accade nella visione folgorante di quello che la critica ha definito «momento epifanico».
Proprio questo momento è l’altare a cui si consacra ogni sublime nichilista. O artista.
Luigi Pirandello volle infatti che per le sue esequie non ci fosse nessun «cero acceso», ma solo il carro, il cavallo, il cocchiere e il suo corpo nudo avvolto in un lenzuolo.
Tanto detestava l’idea di concedersi a un fuoco minore, che lungamente lo avrebbe consumato, da disporre:
«Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui».
Così è stato. La Lucciola ora riposa lì dov’è caduta una notte di giugno di oltre centocinquant’anni fa. E se voi siete di quelli che non prendono lucciole per lanterne, se la andate a trovare, fatelo senza maschere. Come avrebbe voluto lui. Di fronte alla sua tomba siate “nudi” come la natura in cui hanno trovato conforto i suoi personaggi. Come la pietra sotto la quale la cenere della Lucciola ha infine vinto sul fuoco della lanterna.