C’è una fame che tutti gli esseri umani condividono: quella del significato. Se si vuole, a chi ha sete si può porgere un bicchiere, a chi è digiuno si può offrire del cibo. Ma nessuno ha mai pensato di costruire distributori di significato, offertori di senso, mense caritatevoli di spiegazioni.
È forse per questo che molti di noi, durante l’infanzia, hanno percepito uno strano disagio o perfino un sottile malessere di fronte ad uno dei mantra più iconici della cultura occidentale di biblica derivazione: “Polvere sei, polvere ritornerai”. Molti bambini, se non tutti, invitati da poco al banchetto della vita, si saranno chiesti il perché di questo prematuro memento mori che prontamente freddava la loro smania di afferrare il cibo dell’esistenza.
Per fortuna ci sono le fiabe.
Sì, perché, ancora una volta, i nostri antenati nel corso dei millenni hanno provveduto a costruire migliaia di serbatoi ermetici in cui preservare il significato delle loro storie dalla mattanza degli analisti istruiti o dalla macellazione degli ignari fruitori. Attraverso quelle che oggi con amara ironia o nostalgico distacco chiamiamo “favole”, i saggi di ogni tempo hanno congegnato i più inespugnabili distributori di senso della storia dell’uomo.
Mettendo d’accordo tutte le differenze religiose, le fiabe hanno costituito anche, per chi ha avuto la fortuna di averne contezza, la migliore tra le esegesi bibliche. Con le Scritture esse hanno infatti condiviso la coscienza di una Struttura alla base degli eventi; la visione di un’Armonia che sottende a questa stessa Struttura; la fede nella Possibilità di allinearsi a questa stessa Armonia.
È fin troppo nota la fiaba di colei che trae il suo nome dalla cenere. Cenerentola, infatti, oltre ad essere la protagonista di una delle molteplici narrazioni popolari raccolte dai Grimm, incarna un archetipo che si è imposto con forza in tutte le culture del Pianeta e che conta più di trecento versioni.
Tra le meno note c’è ancora una volta quella siciliana raccolta da Giuseppe Pitrè, che reca il nome bizzarro di Gràttula Beddàttula, cioè Dattero Beldattero, dal nome della pianta che, allo stesso modo del ramo di nocciolo della fanciulla dei Grimm, la protagonista usa come bacchetta magica per ottenere vestito, scarpe e carrozza e poter andare così al ballo.
Chi leggerà la fiaba siciliana, memore della più conosciuta versione dei Grimm, noterà ad una prima lettura l’importante assenza della cenere. La più piccola di tre fanciulle, figlie di un mercante che parte per un viaggio, non vive infatti nella cenere, ma si cala dentro un pozzo che contiene una fenditura da cui riesce a intravedere un magnifico giardino, il giardino del Reuccio del Portogallo.
Eppure, ad una lettura più attenta, la fanciulla che, così come accade nella versione dei Grimm, riuscirà grazie ad una pianta magica ad andare al ballo per ben tre sere, si lascia sfuggire una fondamentale variante della più diffusa cenere: la polvere.
Quando Ninetta, la protagonista di Gràttula Beddàttula, incontra al ballo il Reuccio, che la riconosce dopo averla vista nel suo giardino, i due hanno un velocissimo quanto enigmatico dialogo che riportiamo in traduzione italiana:
«Signora, come state?»
«Come l’inverno»
«Come vi chiamate?»
«Con il nome»
«Dove abitate?»
«Nella casa con la porta»
«In quale strada?»
«Nella via del polveraccio».(Gràttula Beddàttula, in Fiabe novelle e racconti popolari siciliani, Giuseppe Pitrè)
Se in Sicilia colui al quale avete chiesto l’indirizzo vi dice che abita nella “vanedda di lu pruvulazzu” (nella via del polveraccio), non insistete. Non vuol dirvi dove abita. Nella tradizione popolare siciliana, infatti, una simile espressione indica un luogo indefinito. Un “ovunque e in nessun luogo”. In più, l’espressione “addivintari pruvulazzu” (diventare polveraccio) equivale a “svanire”, “sparire”. Perché allora la Cenerentola di Gràttula Beddàttula fa tanto la preziosa?
Per uno studio dei simboli della cenere e della polvere nella complessità con cui compaiono nelle varie tradizioni del racconto popolare e nei testi d’alchimia, ci vorrebbero molte pagine di analisi. Ciò che ci preme qui, però, è mettere in rilievo come già nell’esegesi biblica dotta, come quella cabalistica, lungo tutto il Medioevo, la “polvere” avesse due significati distinti se non opposti.
Il primo è quello che si è imposto nel famoso versetto “Polvere sei, polvere ritornerai” e che allude allo stato di disgregazione a cui tutti gli uomini sono soggetti dopo la morte. Senza troppi giri di parole, nel caso in cui qualcuno lo avesse dimenticato, la “polvere” deve ricordare all’uomo che, come tutta la materia organica, anch’egli diventerà cibo per vermi. Ciò fa parte di molta della semantica che il Medioevo più divulgativo ci ha lasciato.
C’era però anche un secondo e più indecifrabile significato che la polvere, insieme alla cenere, veicolava per i più dotti. Tanti di noi avranno trascurato o addirittura sorriso della fiabesca attitudine, resa poi tangibile dagli effetti speciali del cinema, di manifestare l’intervento magico di un mondo fatato con l’apparire di una luminosa polverina. Eppure, la “polvere”, un tempo, era anche questo: una terra sottilissima e impalpabile di cui era costituito l’altro mondo e a cui - ammonivano fiabe, racconti, ricerche sperimentali e Libri sacri – bisognava ritornare.
“Polvere sei, polvere ritornerai”. Ma il monito della Genesi si potrebbe anche tradurre con l’imperativo “Polvere sei, polvere ritorna”. “Separato dal Luogo invisibile da cui provieni, sei frantumato come la polvere. Torna dunque alla Polvere, che è dovunque e da nessuna parte. Torna intero”. E non è superfluo insistere sul verbo “tornare”, perché esso non fa che tradurre alla lettera il verbo ebraico su cui si è fondata tutta la soteriologia cristiana di tipo ecumenico, e che è stato nei secoli reso con il verbo “pentirsi”, più capace di indurre quel sentimento di contrizione colpevole che meglio si addiceva alla paura della morte.
Pare allora che la Cenerentola siciliana non abbia avuto indicazioni più romantiche da dare al principe se non invitarlo a cercarla nella via della polvere: il Nessun Luogo del Per Sempre. La cenere, inoltre, che caratterizza le tante versioni della fiaba, non era solo la metafora dello scarto e del rifiuto per eccellenza. Non solo il tributo da pagare alle tribolazioni indotte da matrigna e sorellastre. La cenere, in quanto prodotta dalla combustione, era ciò che ha tenuto testa al fuoco. Ciò che gli è sopravvissuto.
Quando nella tradizione biblica Giacobbe si dovette misurare con un Uomo venuto da un altro mondo, - un Angelo dice l’esegesi -, prima di essere ribattezzato con il nome di Israele, quest’Angelo lottò con lui tutta una notte. La notte delle tenebre interiori in cui ciascuno prima o poi “viene fatto a pezzi”. La notte in cui si sta “come l’inverno”. La radice del verbo usato per indicare la lotta imposta a Giacobbe significa infatti “stringere” e “abbracciare”, ma anche, sorprendentemente, “polverizzare”.
Ritornare polvere, diventare cenere. Tra Giacobbe e Cenerentola non c’è differenza. Perché tutto dipende da come affronti il fuoco. E come affronti il fuoco dipende da ciò che tu credi di essere: cibo per vermi oppure magia.