L’epigrafia è una materia complessa, insidiosa e spesso gioca scherzi simpatici; molto spesso, infatti, una lettera in più o in meno in una frase, una “f” o un “e” stravolgono totalmente il testo. Si ha l’impressione, di fronte alla lastra, di dover interpretare e, laddove necessario, inserire le giuste componenti che diano solidità e significato al tutto. È come riuscire a trovare quel pezzo di puzzle mancante che può portarti alla risoluzione dell’enigma, anche se a volte ciò resta una vaga illusione, lasciando spazio all’immaginazione.
Attraverso un’indagine epigrafica nell’odierna città di Roma è stato possibile rispondere, anche se non in modo non del tutto esaustivo, a una serie di domande e ricostruire le intriganti storie di parrucchiere romane.
Molteplici i mestieri che, come ai giorni d’oggi facevano parte della quotidianità del singolo cittadino romano. Esistevano, per citarne alcuni, i medici, gli avvocati, i commercianti, i bottegai, gli artigiani e, considerando l’importanza alla cura del corpo e della persona, i barbieri ai quali gli uomini ricorrevano. E le donne? Come il loro status giuridico influiva sulla possibilità di usufruire della parrucchiera? Ma soprattutto ci siamo veramente mai chiesti chi fossero, cosa facessero e di quanto fosse il loro stipendio?
Prima di introdurre e dare un identikit della figura in questione è necessario individuare le abitudini e le mode in fatto di capelli.
Generalmente sappiamo che le donne usavano tingersi i capelli sia per dissimulare le canizie, sia per modificarne il colore in biondo, nero, rosso o in colori usati dalle cortigiane come blu e giallo carota. I Romani importavano le tinture dalla Germania, dove l'uso era diffuso sia tra le donne che tra gli uomini. Dalla città di Mattium si produceva inoltre la pila mattiaca, denominata da Marziale chattica spuma, che colorava i capelli di un biondo acceso. Dall’Oriente e dall’Egitto proveniva l’henna. Si usava inoltre, per chi aveva perso i capelli, ricorrere all’uso di parrucche, confezionate con capelli veri.
Nel corso del tempo, inoltre, le acconciature sono state soggette ad una graduale evoluzione. Fino alla metà del I secolo a.C., le donne si pettinavano con semplicità. Dalla fine della Repubblica si afferma una pettinatura cosiddetta all' Ottavia; essa si caratterizza per un nodus frontale e una crocchia di trecce impostate sull'occipite. Sino alla fine del I secolo a.C. non compaiono acconciature senza il nodus ma, entro il secondo decennio del I secolo d.C., è in voga una pettinatura di tipo classicheggiante: una scriminatura centrale divide la massa dei capelli in due bande mosse da onde parallele annodate sulla nuca. L’età neroniana vede il progressivo abbandono della scriminatura centrale e l’adozione nella parte frontale di capelli tagliati corti e disposti in riccioli. L’acconciatura con l’età flavia e traianea ha ormai raggiunto livelli di artificiosità e difficoltà molto alti: il toupet frontale diviene alto e aguzzo e lo chignon rigonfio a forma di ciambella.
Ma torniamo a noi. Le parucchiere, le ornatrices in latino, erano schiave o liberte (schiave successivamente liberate ma sempre al servizio del loro padrone) dedite all’arte dell’imbellettamento e del parrucco femminile. Le pettinatrici, sebbene facessero uso del pettine, non sono da confondere con un’altra figura, il pectinator, il quale non indicava il parrucchiere, ma colui che usava il pettine per cardare la lana. Nonostante le ornatrices fossero di estrema importanza per la matrona aristocratica o imperiale, presso cui generalmente prestavano servizio, la loro attività è tanto poco nota, quanto scarsamente indagata. La loro condizione servile o libertina è attestata nelle iscrizioni funerarie che, il più delle volte, si limitano a semplici citazioni del nome e del mestiere, ovvero alla sua raffigurazione, anche attraverso i suoi attrezzi di lavoro (spilloni, pettini, specchi e retine).
Nella maggior parte dei casi attestati a Roma, le donne erano al servizio di imperatori e mogli di imperatori, ad esempio: di Augusto, di Tiberio, di Antonia, di Agrippina, di Ottavia, di Domiziano, di Adriano e della nipote di Antonino Pio. Nella categoria delle donne imperiali, un numero consistente di iscrizioni è costituito da ornatrices al cospetto di Livia. Ma a ciò è da aggiungere, un ulteriore aspetto: l’ornatrix era anche una “libera professionista”. Si tratta di un elemento importante che sovverte i pregiudizi sociali, in una società, in cui l’impegno in arti, mestieri e commercio, erano teoricamente riservati agli uomini. Esse erano perciò, anche se in minoranza, parte integrante della vita economica e partecipanti attivi nell'economia urbana. Le donne potevano sposarsi, ovviamente quando non erano schiave, poiché secondo il diritto romano in tale condizione, prive di diritti civili e di riconoscimento giuridico, erano chiaramente incapaci di un matrimonio legale e talvolta, proprio per tale condizione, prendevano in prestito le consuetudini e gli ideali e adottavano impropriamente il termine di coniugi, poiché erano ansiosi di assimilarsi alle forme e alle pratiche il più rapidamente possibile.