Schermo nero. Alcuni passi ed il rumore di una portiera che viene chiusa. L’auto viene accesa e subito messa in movimento, consentendo di scorgere l’interno di un ombroso garage che viene abbandonato in retromarcia. Poco dopo, una serie di lunghi camera-car immettono il veicolo nelle arterie principali della città, arrivando ad abbandonarla per affrontare le grandi highways americane.
Per alcuni minuti, le uniche cose visibili sono vetture e asfalto; un aspetto che vuole evidenziare immediatamente due dei capisaldi del road movie, genere che trova il proprio apice nel decennio precedente, quello dei ’60. Ma Steven Spielberg non vuole disegnare un prodotto all’insegna della spensieratezza e della libertà: Duel sa essere claustrofobico nonostante i grandi spazi aperti, sfruttando i pochi elementi a disposizione per offrire un lungometraggio ansiogeno e carico di una costante tensione logorante.
È facile nominare un prodotto del genio di Spielberg. Tra le più popolari creazioni del cineasta vengono subito in mente titoli come Jurassic Park, E.T., Indiana Jones, Lo squalo, Salvate il soldato Ryan e Schindler’s List. Tutti questi lungometraggi hanno in comune una grande capacità: quella di aver saputo fare breccia nell’immaginario collettivo e di essersi sedimentati nella cultura di una grande platea spettatoriale, capace di comprendere un range esteso tra l’attento cinefilo ed il fruitore sporadico.
Lo squalo (1975), terzo prodotto filmico dell’autore, rappresenta il grande momento di svolta nella carriera di Spielberg, che riesce a trovare le chiavi per la genesi di una pellicola di qualità e di grande successo al botteghino: è l’inizio della stagione dei blockbuster, dei film prodotti dai grandi studios americani e destinati ad un enorme successo presso il grande pubblico.
Ma il regista si forma in piena New Hollywood, tra grandi mostri sacri dell’Arte ed un rinnovato potere autoriale-decisionale per i cineasti a scapito proprio delle majors hollywoodiane; una fase estremamente importante per il nativo di Cincinnati, che ha l’occasione di mostrare la propria poetica ed il proprio stile nonostante dei budget e delle tempistiche molto ristrette. Proprio in questi anni, Spielberg realizza Sugarland Express (1974), premiato a Cannes, e Duel (1971), la sua opera prima.
Un esordio che, come anticipato dalle prime righe, prende un genere consolidato e diffuso come quello del road movie per estrapolarne contenuti e possibilità molto originali. La pellicola viene realizzata a partire dal racconto omonimo di Richard Matheson, presente nei crediti anche in qualità di sceneggiatore; lo scrittore, notoriamente legato a pubblicazioni horror, non fa eccezione in questo caso, consegnando ai posteri un racconto folle e irrazionale.
Fu l’assistente di Spielberg del tempo, Nona Tyson, ad indicare tale testo al regista, che rimase presto colpito: «È come un film di Hitchcock, fa davvero paura. È come Psycho o Gli uccelli, ma è su ruote». Molti anni dopo, nella realizzazione di un documentario dedicato, il regista affermerà di aver pronunciato queste parole già dopo poche pagine di lettura.
David Mann (Dennis Weaver) è il protagonista della pellicola, un uomo che per motivi di lavoro è sovente costretto a lunghi spostamenti in auto. L’antagonista è un ignoto camionista che, in maniera totalmente priva di logica, decide di avviare un pericoloso duello con David, dapprima comportandosi in maniera ambigua con il proprio mezzo e, infine, divenendo sempre più sconsiderato e minaccioso.
La spirale degli eventi che viene tracciata è ascendente e senza possibilità di ritorno. Si coglie ben presto la sostanziale impossibilità di una separazione tra i due, con David che a più riprese tenta di seminare e di depistare il rivale sui propri spostamenti, ma senza mai ottenere un successo duraturo. Ed è proprio in questo che la paradossale dimensione claustrofobica trova riscontro, quasi come se le strade fossero parte di un intricato dedalo chiuso e finito.
Una sorta di labirintica arena di battaglia, in pieno deserto del Mojave, dalla quale non è possibile sottrarsi prima di aver compiuto il proprio destino. Si respira una dimensione di ineluttabilità quasi mitologica, con il protagonista che viene costretto a misurarsi con un enorme mostro su ruote più che con una persona.
Una persona mai realmente svelata nelle sue fattezze. Fatta eccezione per alcuni dettagli, come gli stivali o un braccio, così da poter attingere a piene mani da quel magma indistinto dell’ignoto, fucina inestinguibile di terrore e fobia. Una visione primordiale si potrebbe dire, ma che certamente contribuisce a creare un alone di mistero e di angoscia a cui è impossibile dare un volto ed una forma chiara.
A ciò, si somma l’incapacità di poter mostrare la condizione di estrema pericolosità dell’uomo alle varie persone incontrate lungo il percorso. Lo scaltro camionista riesce difatti a celare i propri intenti senza problemi, rendendo David l’unico testimone delle sue azioni scellerate e portandolo quasi sull’orlo della pazzia. Soltanto nel finale il protagonista, resosi conto della non reversibilità degli eventi e dell’impossibilità di evadere da quel gioco mortale, deciderà di abbandonare il proprio atteggiamento passivo-evasivo.
La narrazione svolge un lavoro maestoso in questo lungometraggio, immettendo nel racconto i principali elementi – strada, David e camionista – già sul finire dei titoli di testa, dando quasi l’illusione di un medias res in virtù della celerità con cui viene presentato al pubblico il fulcro della storia. I circa novanta minuti che seguono non presentano sostanziali innovazioni, fatta eccezione per i brevi incontri con personaggi di varia estrazione.
In concreto, la storia non ha bisogno di alcun preambolo o espediente per essere efficace. Necessita, altresì, di una conduzione adeguata che sappia valorizzare i pochissimi elementi disponibili per tenere incollato lo spettatore alla storia. L’insidia della ripetitività si nasconde dietro ogni curva; ma Spielberg, già in questo esordio, sa dosare alla perfezione qualità e quantità, donando allo spettatore ciò di cui ha bisogno per mantenere alto il livello di attenzione giocandosi le proprie carte con tempismo ed efficacia.
Come dimostra l’attento processo di selezione del camion. Se per l’auto di David, una Plymouth Valiant del 1971, la prerogativa principale era un colore capace di farla risaltare nel deserto, ben diverso fu il criterio adottato per il mezzo avversario. Quest’ultimo, un Peterbilt 281 del 1955, fu scelto proprio in virtù della propria peculiare motrice, dotata di tratti antropomorfici e capaci di renderlo malvagio già ad un primo sguardo.
In aggiunta, vennero adottate tutta una serie di misure utili a donargli un’aria ancora più sinistra, come il grasso spalmato sui finestrini, insetti morti sulla parte anteriore e la presenza di numerose targhe affisse sulla motrice, vero e proprio bottino di guerra dei crimini commessi. La pregnante e costante testimonianza, insomma, non di un novello assassino quanto di un esperto serial killer.
Ma anche il comparto del sound design ha offerto un’importante prova per la causa: l’ipertrofia sonora è un aspetto capace di conferire picchi di orrore e di paura, ma non solo. In Duel, Spielberg ha la grande intuizione di utilizzare dei suoni scollegati dalla realtà, che assumono una connotazione chiaramente espressionistica; come nella scena in cui David viene svegliato di soprassalto dal passaggio di un treno, ma non prima di aver brevemente udito il suo avvicinamento con rumori riconducibili a quelli di un autoarticolato.
La stessa atmosfera creata dalla colonna sonora, realizzata anche con strumenti etnici e non convenzionali per il genere, contribuisce a generare un prodotto estremamente all’avanguardia e sperimentale. Specialmente se si pensa alla sua destinazione inizialmente televisiva, con un aspect ratio di 4:3 solo recentemente convertito al panoramico 1,85:1.
Certamente non si può parlare di un prodotto esente da errori o da imprecisioni, data la sua incredibile gestazione di soli tredici giorni: Spielberg stesso, nel rivedere la pellicola a distanza di anni, ha elencato i vari difetti dell’opera. Ma anche i suoi numerosi pregi, mostrando orgoglio per un prodotto nato sull’onda dell’entusiasmo e della consapevolezza di potersi giocare le proprie carte per ascendere al palcoscenico principale.
Le porte dell’Europa si apriranno in poco tempo, rendendo Duel un prodotto di culto che avrebbe riscosso un grande successo presso la critica, poi consolidato con il seguente Sugarland Express ed esploso ad ogni possibile latitudine con il trionfo planetario de Lo squalo. Oltre 50 anni dopo, siamo ancora a parlare di uno dei più grandi registi di ogni tempo, nuovamente candidato all’Oscar nell’ultima tornata con il quasi autobiografico The Fabelmans.
Un lungometraggio, quest’ultimo, per mezzo del quale è possibile risalire ai primi approcci con la Settima Arte del regista; come il riferimento al corto The Last Train Wreck (1957), dove Spielberg – a malapena undicenne – utilizzò abilmente la prospettiva per generare un maestoso scontro tra treni giocattolo. Il primo passo di un percorso che ancora sa regalare capolavori emozionanti.