Fra le tante rivoluzioni avvenute nella seconda metà del 1900, ce n’è una di carattere squisitamente culturale, con delle importanti implicazioni socioeconomiche, che sembra essere stata apparentemente la meno importante e conosciuta. Eppure, essa ha coinvolto direttamente milioni di persone. Si tratta della rivoluzione del versoliberismo poetico.
Questa rivoluzione epocale, rompendo i vecchi schemi formali, in auge sino a tutto il diciannovesimo secolo e per una buona parte del ventesimo, ha infatti consentito alla poesia di uscire da una cerchia ristretta di poeti e intellettuali, per diffondersi tra tutti gli strati sociali. Essa si inserisce a pieno titolo in un quadro di conquiste di libertà e di diritti, che non può e non deve vedere esclusa la libertà di comporre versi, canzoni e poesie.
Non sto dicendo che siamo tutti dei Virgilio, dei Dante Alighieri o dei Leopardi! Ma dico che ciascuno di noi, non a caso popolo di santi, navigatori e poeti, ha diritto di scrivere poesie! Spetta ai lettori e soprattutto al Tempo, giudice inesorabile e infallibile, il giudizio insindacabile su quei versi! Non tutti però hanno accolto con favore questa apertura delle porte del Parnaso poetico all’universo mondo.
Alcuni detrattori del diritto universale al verso libero, ritengono che qualunque discorso sulla poesia dovrebbe partire da un dato di fatto: stabilire, in forma certa, delle regole necessarie, attraverso le quali creare la poesia. Da qui l’esigenza di stabilire con sicurezza delle regole sicure, come accade in ambito scientifico.
Questa teoria contraria al verso libero, ritiene che ci sia la necessità di concordare le regole del gioco: ovvero, stabilire con certezza quale sia il linguaggio poetico da usare; o meglio, quale sia lo strumento attraverso il quale veicolare la poesia. Insomma, un regolamento di ordine matematico in piena regola, come avviene in ogni ambito scientifico che si rispetti.
In tal modo, definite in maniera scientifica le regole del gioco, tutti gli aspiranti poeti potrebbero approcciarsi alla composizione poetica, ma soltanto a condizione di rispettare le regole date alla base da una sorta di Accademia della Poesia, responsabile di dettare e gestire queste regole. La teoria, alquanto elitaria, non può essere accettata per almeno due ordini di ragioni:
- la prima è che per applicarla occorrerebbe possedere quelle regole del gioco poetico, poste alla base della teoria dai loro fautori. Pur tuttavia queste regole non esistono, e personalmente dubito anche che possano esistere;
- la seconda è che questa teoria risulta elitaria e finirebbe per creare dei poeti di serie A e poeti di serie B, escludendo di fatto molti versificatori, poco avvezzi alla matematica, e favorendo quegli ingegni scientifici che magari, pur avendo assai sviluppato l’emisfero cerebrale sinistro, responsabile e depositario delle scienze esatte, non hanno però un grande ingegno poetico.
Un grosso impulso alla diffusione del versoliberismo è venuto negli ultimi anni dal World Wide Web. Alcuni detrattori sostengono infatti che la diffusione della rete abbia inoltre creato dei poeti fasulli. Secondo questa teoria, ogni adolescente cela un animo poetico capace di comporre dei versi. Il problema sussiste, quando questi adolescenti, una volta diventati maturi, insistono nello scrivere poesie. In tal caso, conclude la teoria, o siamo di fronte a un perfetto imbecille oppure a un grande poeta.
A sentir Francesco De Gregori, ne Le Storie di ieri: «Mussolini ha scritto anche poesie; i poeti che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa», e confermando che anche Hitler si cimentava nella versificazione (di Stalin e di Francisco Franco mi mancano dei dati precisi), verrebbe spontaneo considerare esatta l’equazione perfetta tra poeta e imbecille che questi detrattori hanno elaborato all’interno della loro teoria.
La tentazione di aderire a questa teoria, soprattutto grazie all’appoggio del bravo poeta e cantante romano, è veramente grande.
Quanti di noi rimangono perplessi, ogni giorno, nella rete, trovandosi di fronte a delle poesie di maniera che altro non sono se non degli sfoghi dell’anima!
Eppure, proprio per questa ragione io non me la sento di aderire neppure a questa critica del versoliberismo. Chi trova disdicevole lo sfogo di un’anima che soffre? Non è forse giusto che l’arte sovvenga gli animi sofferenti? A che altro può servire la poesia se non a lenire le sofferenze della vita? D’altronde che cos’è la poesia? Ce lo siamo mai chiesti seriamente? Chi se la sente di dettare davvero delle regole che la qualifichino, prima ancora di avere risposto con chiarezza, alla precedente domanda su cosa sia veramente la poesia?
Per tentare di rispondere, io vorrei cercare di guardare alla poesia, sulle orme dell’insegnamento di Benedetto Croce, come scaturigine della «conoscenza intuitiva, modello poetico: espressione, liricità, sentimento, bellezza, cosmicità e armonia».
Qualcuno ha affermato che la differenza tra la vera poesia e la poesia fasulla, sta in ciò che mentre la seconda resta uno sfogo dell’animo sofferente del bambino o dell’adolescente che non muore mai, neanche nel corpo più maturo di un uomo, la seconda, la poesia vera, assurge a messaggio universale, percepibile e riferibile a chiunque nel mondo, per il solo fatto di appartenere al genere umano, all’insegna di una mirabile estetica artistica universale.
La poesia viene così considerata una chiave di lettura e di sfogo della fuggevolezza e dell’inafferrabilità dell’esistenza e delle passioni che la costituiscono. Certo non abbiamo risposto alla domanda su cosa sia davvero la poesia. Sembra facile rispondere a una tale domanda, ma non lo è per niente.
In questa perenne ricerca siamo giunti alla rivoluzione del versoliberismo. Io non mi affannerei più di tanto alla ricerca di una definizione della poesia, che forse è persino impossibile, se non addirittura superfluo considerare. Intanto comincerei a distinguere tra poesia strutturata e poesia destrutturata, ossia in versi liberi.
La prima forma di poesia risulta subito riconoscibile da tutti. Non solo da una élite di letterati, ma anche dal popolo. Chi non riconoscerebbe la bellezza della poesia di Omero, di Virgilio, di Orazio, Catullo, fino a Dante, Boiardo, Ariosto, Tasso, Belli e Trilussa?
Appartengono a questa prima categoria, inoltre, anche le poesie che si appoggiano a una struttura interna, che si fonda su un tipo di musicalità interiore, strutturata però sul numero delle sillabe che la compongono. Si pensi a titolo d’esempio al capolavoro di Leopardi L’Infinito; oppure a certe liriche struggenti del Foscolo, del Pascoli e del Manzoni. Certo anche la forma è importante, ma da sola non può bastare a contenere la poesia.
Poi abbiamo il secondo tipo di poesia quella destrutturata, o del verso libero, accessibile a tutti. Anche all’interno di questa seconda categoria possiamo trovare dei veri poeti, molto profondi, originali e universali, accanto a dei poeti che sono rimasti bambini e continuano a piangersi addosso. Così come non era poi tanto raro trovare dei poeti pedanti anche all’interno delle forme prestabilite del passato (cito Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro per tutti).
I più maliziosi, per concludere, affermano che questa copiosa produzione poetica internettiana, torna comoda soltanto a certe case editrici, che lucrano sull’ingenuità e sull’ego smisurato di questi milioni di sedicenti poeti che, altro non sono, che delle querule voci che si levano dall’inferno dei vivi.
Io non sono d’accordo. Intanto una casa editrice che si rispetti non inserirà mai nelle proprie collane dei versi che non abbiano un minimo di dignità poetica, sottoponendo gli sforzi lirici degli aspiranti allievi di Melpomene a un editing ferreo e costruttivo, senza il quale, quei versi, a parer mio, non dovrebbero veder la luce della carta stampata. E poi, ancora una volta: perché privare un’anima sofferente dal trovare uno sfogo nella composizione lirica?
Concordo che certi aspiranti poeti dovrebbero leggere i classici e almeno i bravi poeti del Novecento, prima di cimentarsi a loro volta nella creazione poetica; e concordo anche con chi ha valutato che in Italia i poeti siano più numerosi dei lettori di poesie.
Ma questo è un altro ordine di problemi. Occorrerebbe che la scuola la piantasse di relegare lo studio della poesia nelle forme paludate in cui è stata insegnata negli ultimi centocinquant’anni, per aprire finalmente le porte alla poesia vera, lasciando liberi gli studenti di interpretare e reinterpretare le vibrazioni poetiche universali contenute nei testi dei grandi poeti. Per dirla con Benedetto Croce occorre che i nuovi poeti si intonino con gli antichi, sino a formare un coro universale.
A ben vedere il primo seme della rivoluzione versoliberistica lo ha piantato proprio il filosofo fondatore dell’idealismo che porta il suo nome. Fu proprio lui il primo, già negli anni Trenta del secolo scorso, a negare validità assoluta alle scuole di poesia e ai loro precetti.
Anche il poeta, come ogni artista, cerca di afferrare il senso fuggevole della vita, e lo può fare soltanto attraverso le parole. È con le parole, e soltanto grazie ad esse, che il poeta può aspirare ad esprimere l’inconoscibile, l’irrazionale, cercando di unire armoniosamente il suo respiro a quello dell’Universo.
E forse è proprio questo la poesia: il respiro dell’uomo alla ricerca della sua esatta dimensione nell’universo infinito.