Quando sentono che ho vissuto a Lima in due occasioni - da ragazzo e poi da giovane funzionario delle Nazioni Unite - molti mi chiedono “Ma come hai fatto con l’altitudine?”. Ed io devo invariabilmente rispondere “ma se Lima è sull’oceano Pacifico!”. Talmente forte e radicata è l’immagine andina ed incaica del Perú, che spesso la sua capitale viene trascurata.
Fondata dagli spagnoli, Lima in realtà ha da sempre volto le spalle al mondo tellurico e violento delle Ande, guardando piuttosto al vasto oceano. Da Lima partivano le mitiche ricchezze del Perú verso il resto del mondo (soprattutto oro e argento, ma anche rame, guano, salnitro e caucciù), qui giungevano i beni voluttuari dell’Europa destinati alle sue classi abbienti, e le ondate migratorie, specie di cinesi, liguri e giapponesi, fra l’Ottocento e la prima metà del Novecento.
La città peraltro non ha mai cessato di essere polo di attrazione per masse di abitanti della cordigliera andina che vi cercano un futuro migliore e si accalcano nelle sue bidonvilles (o, piu’ eufemisticamente, “pueblos jóvenes”). Più che del Cuzco, Lima è la “cugina” di altre metropoli del Pacifico, quali Los Angeles, San Francisco o Valparaíso. Alla prima l’accomunano le grandi spiagge, la cultura del surf e le grandi ville in stile film noir hollywoodiano dei quartieri residenziali di Miraflores e San Isidro. Alla seconda, le poetiche case ottocentesche del quartiere di Barranco, abbarbicate sulle rive scoscese del Pacifico e avvolte d’inverno dalle fredde nebbie dell’oceano. Alla terza il grande porto e le catapecchie precariamente appollaiate sui brulli colli circostanti. Ma non va naturalmente dimenticato il centro storico della città, cuore politico del Perú, ricco di importanti monumenti coloniali e musei ma in buona misura fatiscente.
A questa megalopoli sfaccettata è in gran parte dedicata l’opera di Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura 2010 ed uno dei maggiori narratori contemporanei. Lo scrittore ha dedicato libri fondamentali ad altri luoghi topici del suo Perú: La casa verde a Piura, la sonnolenta cittá di provincia dell’infanzia, schiacciata dal calore del deserto di Sechura; Pantaleón y las visitadoras alla foresta amazzonica, l’“inferno verde”, la “catedral de la pesadumbre” descritta da tanti autori latinoamericani; Lituma en los Andes all’impenetrabile mondo andino e all’orrore di Sendero Luminoso. Malgrado ciò, Vargas Llosa resta uno scrittore eminentemente limeño. E si può dire che Lima stia a Vargas Llosa come Dublino sta a Joyce e Los Angeles a Raymond Chandler. Sarà quindi lui ad accompagnarci nella conoscenza della città.
Lima la horrible
Così la definì lo scrittore peruviano Sebastián Salazar Bondy in un saggio ormai classico pubblicato nel 1964. In questo libro, l’autore muove una dura critica alla "leggenda" della Lima tradizionale, nostalgica capitale del più importante vicereame dell’America Latina, in realtà strutturata in rigide caste e fondata sul privilegio ed il benessere di pochi a scapito dell'immenso resto del paese. Ma al di là della critica storico-sociale Salazar Bondy indugia anche sul degrado architettonico della città e la sempre crescente cintura di pauperizzazione che la strangola.
Del resto provate a immaginarvi una città circondata da un deserto simile a quello del Sahara, in cui, a causa dell’incontro fra la gelida corrente di Humboldt e i tropici il cielo è coperto per nove mesi all’anno da una cappa grigia di nuvole; una città in cui non piove mai, ad eccezione della garúa, l’insistente nebbiolina acquea che infradicia i vestiti e le ossa. Una città grigia, polverosa, quasi “fantasmale”.
Già Herman Melville in un famoso capitolo del Moby Dick in cui riflette sull'associazione tra il “bianco” e il “male” la definisce “la città più strana e triste che tu possa vedere”. E ne fa una descrizione evocativa, sottolineando il suo biancore nebbioso (i cieli "senza lacrime", da cui non cade mai la pioggia), i suoi terremoti, la sua inesorabile decadenza.
È a questa Lima che Mario Vargas Llosa giunge dopo un infanzia trascorsa in provincia, e a cui dedica il suo romanzo d’esordio del 1962 La ciudad y los perros. Ambientato nella rigidissima scuola militare Leoncio Prado alla quale il padre di Vargas Llosa, che osteggiava la sua passione per la scrittura, affidò il figlio, il romanzo autobiografico descrive una dura esperienza di vita, intesa come metafora della violenza contemporanea. Accanto al racconto principale sul “nonnismo” si intrecciano, con un uso davvero innovativo per l'epoca, flashback riguardanti il passato dei principali personaggi. Disse Vargas Llosa di questo romanzo, in un’intervista al giornalista Beto Ortiz: «Credo che senza il Leoncio Prado non avrei conosciuto il Perù; lì ho scoperto che la realtà peruviana non era una realtà di bambini benestanti, di figli di papà ("pituquitos") di Miraflores, ma una realtà estremamente complessa, di bianchi, di neri, di indios, di cinesi; che c'era gente povera, che c'era gente ricca. E tutto questo, che può essere molto traumatico, è stato straordinariamente istruttivo, mi ha mostrato la vita reale».
La Lima dei ricchi
Alla Lima della sua giovinezza Vargas Llosa dedica anche il suo secondo romanzo, Los cachorros (I cuccioli), del 1967, ambientato a Miraflores tra la seconda metà degli anni '50 e la prima metà degli anni '60.
Affacciato sull'oceano Pacifico, Miraflores è il quartiere residenziale per eccellenza di Lima, nato come località balneare dell'aristocrazia peruviana e, a partire dagli anni '40, abitato da famiglie prevalentemente “bianche” che hanno fatto fortuna nell'industria, nella finanza, nelle professioni liberali: vivere in questa zona significa essere automaticamente di buona famiglia, “pituco” .
Al di là dei temi consueti (e serissimi) del Vargas Llosa delle origini - i problemi di adattamento dell'adolescenza , la società borghese ipocrita e feroce che punisce chi non segue le sue regole, l’intrinseco razzismo e machismo della società peruviana, l’ossessione delle apparenze - il libro è anche una godibilissima descrizione dell’“altra” Lima, quella della jeunesse dorée che ascolta Elvis Presley e Pérez Prado e confonde la spiaggia dell’Herradura con Waikiki e Malibu. Insomma, quasi un Less than Zero ante litteram.
Lima, capitale politica
Vargas Llosa è fondamentalmente uno scrittore “politico”. E a Lima, centro assoluto del potere in Perú, ambienta anche quello che probabilmente resta il suo capolavoro, la Conversación en la catedral (1969).
Anche qui, lo scrittore attinge (trasfigurandoli in quelli del protagonista Santiago Zavala, “Zavalita”) ai suoi ricordi personali, di quando, al tempo della dittatura del generale Manuel A. Odría (1948-1956) fu studente universitario all’Universidad de San Marcos e partecipò alle attività clandestine del gruppo comunista Cahuide. “Eroe” del romanzo è “Cayo Mierda”, ispirato all’eminenza grigia del regime, Alejandro Esparza Zañartu, responsabile delle torture, degli arresti, della repressione e della corruzione che inevitabilmente accompagnano ogni dittatura. Oltre al partito comunista, il grande rivale è quello Aprista dell’ideologo riformatore Víctor Raúl Haya de la Torre. Ma la vera protagonista del romanzo è ancora una volta Lima, e il suo centro storico dai tuguri angusti e oscuri, schiacciato da un senso opprimente di miseria e di squallore che ben rappresenta il pessimismo cosmico dell’autore riguardo alla storia e alla politica del suo paese. A tratti sembra quasi di trovarsi nell’allucinante San Pietroburgo dei Demoni e di Raskolnikov.
La Lima di oggi
Molti anni trascorrono dalla pubblicazione di Conversación en la catedral ed ecco che Vargas Llosa torna a mettere Lima al centro della sua narrativa. È il romanzo Cinco esquinas, dal nome della brulicante e popolare località della capitale a cui si ispira, pubblicato nel 2016. Ancora una volta il tema è politico. Questa volta il “dittatore” è Alberto Fujimori, e la sua anima nera è Vladimiro Montesinos, capo dei servizi segreti e responsabile della repressione e della corruzione. L'analogia tra Esparza Zañartu e Vladimiro Montesinos è stata fatta più volte, per il ruolo simile che hanno svolto nella storia del Perú. Ma il tono di Cinco esquinas non è più quello cupo di Conversación en la cathedral. Quella di Fujimori, piú che una Dicta-dura appare come una Dicta-blanda, da irridere più che da stigmatizzare. E spariti sono gli intensi oppositori clandestini della gioventú dell’autore. Ora i personaggi preferiscono reagire al clima politico dandosi al sesso sfrenato. E questo accade in linea coi tempi post-moderni, de-ideologizzati e liquidi in cui viviamo, e in seguito all’evoluzione di Vargas Llosa da scrittore impegnato a ironico e disincantato osservatore del mondo di oggi (si è parlato in proposito della “scoperta dello humour” da parte dell’autore).
Del resto molta acqua è passata sotto i ponti dai tempi di Conversación en la cathedral. Il Perú ha subito un grande processo di rimescolamento e di omogeinizzazione sociale, razziale e culturale. Sparita è l’oligarchia “bianca” assieme alle basi economiche - il grande latifondo e le materie prime da esportazione - su cui fondava il suo potere. I nuovi ricchi sono esponenti delle classi economiche emergenti, meticce e vitalissime, descritti in quell’inno all’economia informale che è El otro sendero di Hernando de Soto. Altre, nuove fonti di ricchezza sono la coca-cocaina, e un rinnovato boom turistico, veicolato da una gastronomia famosa in tutto il mondo.
Politicamente il Perù le ha provate tutte: governi “rivoluzionari”, riformisti, neo-liberisti, populisti di destra e di sinistra (ad un certo punto, perfino gli arci-nemici Odría e Haya de la Torre si unirono in un unico partito populista). Lo stesso Vargas Llosa ha gettato alle ortiche il comunismo e il castrismo delle origini, diventando liberista in economia e liberale in politica (con derive libertine, libertarie e liberal), acerrimo oppositore di ogni dittatura e di ogni forma di populismo. Dopo aver appoggiato partiti moderati sempre sconfitti alle elezioni, nel 1990 decise di entrare lui stesso in politica e di sfidare Fujimori alle presidenziali. Come sappiamo, non fu eletto. E forse fu un bene. Se avesse vinto, avremmo probabilmente perso un grande scrittore e guadagnato l’ ennesimo presidente inefficace (quasi tutti i presidenti del Perú lo sono stati, troppo grandi i problemi da affrontare).
Cinco esquinas rappresenta bene la nuova Lima. In via di sparizione le grandi dimore di Miraflores e San Isidro con i loro giardini inquietanti, sostituite da condos in stile Miami. In gran parte restaurato il centro storico coloniale, non più tugurizado. Cambiato perfino il clima che da grigio e temperato s’è fatto più caldo e soleggiato, per effetto forse del global warming. Da città “horrible” e intensamente dolorosa, si è andata facendo luogo “globale”, godereccio, sudaticcio ed appiccicaticio, come gran parte del resto del mondo d’altronde. Ma cionondimeno ancora poliedrica, proteiforme e sempre sorprendente.
Vargas Llosa è scrittore fondamentalmente realista (oltre che strutturalista e postmoderno). Come si evince dai suoi scritti critici (raccolti in La verdad de las mentiras), i suoi ispiratori sono Flaubert, Dos Passos, Faulkner, Malraux, Hemingway e il nouveau roman. Ben lontano da quel “realismo magico”, tanto amato dagli europei (e alla lunga un po’ stucchevole), che ha maggiormente caratterizzato il boom letterario sudamericano, a cominciare da Gabriel García Márquez.
Per concludere
Ai molti che: hanno indossato borsette peruviane tessute a mano con motivi folcloristici; hanno dormito in sacco a pelo sulle alture del Machu Picchu; sostengono con Evo Morales che la coca è la “planta sagrada de los Incas”; credono alla magia degli sciamani e dell’ayahuasca; e si indignano per l’ America Latina “continente desaparecido” (?), dico: non leggete Mario Vargas Llosa, tenetevi stretti i vostri Castañeda, i vostri Paulo Coelho, i vostri Gianni Minà (e, perché no, anche il vostro Gabo). E non sentitevi obbligati ad inserire Lima fra i vostri itinerari di viaggio.