Ah, l’India! O le Indie come si diceva una volta. Cosa pensate che caratterizzi questo paese meraviglioso? Il Gange? La catena montuosa dell’Himalaya? il pantheon con migliaia manifestazioni della divinità?? No! Assolutamente! Se andate in questo Paese con questi luoghi comuni siete ben lontani dal comprenderlo. Dovete invece, convincervi che vi è un altro simbolo-oggetto della vita indiana: lo straccio.
Lo straccio ha una sua onnipresenza e onnipotenza, è lo straccio che sostiene la vita stessa di questo Paese. Cominciate ad entrare in un luogo di ristorazione e vi consiglio di individuare immediatamente, non il menù e relativi prezzi o la confortevolezza del luogo, ma la posizione del nostro straccio. Osservate. Apparentemente appoggiato in luogo anonimo, senza che niente lo qualifichi per la sua mansione o specializzazione: è un semplice, scuro straccio, appoggiato lì per caso o almeno così sembra. Invece è in una posizione strategica e accuratamente studiata. Ogni addetto, di qualunque qualifica e mansione, transita, venendo chissà da dove (è meglio non fantasticare per non inquietarsi ulteriormente) e si pulisce le mani!
Vi sedete e rapidamente il cameriere verrà a pulirvi il tavolo con lo stesso straccio. L’oggetto utile, prezioso e operoso ritorna al suo posto perché subito dopo servirà per lucidare i bicchieri, le posate i piatti o qualunque posata (accidenti alla efficienza della forza di gravità) caduta a terra che verrà minuziosamente spazzolata dal nostro “lindo” tessuto.
Se la calura monsonica o l’affaccendarsi tra un tavolo e l’altro creerà una fisiologica sudorazione, con cosa pensate verranno deterse le secrezioni delle ghiandole sudorifere della sua fronte?
Ma anche nelle nostre linde cucine lo straccio non ricorda che un umile oggetto è importante per la sua insostituibile utilità? Usciamo ringraziando il nostro efficiente e robusto sistema immunitario e il guidatore del taxi che vi sta aspettando è affaccendato nella lucidatura e spazzolatura di antiche cromature con il suo straccio personale, ma fortunatamente con lui avete da condividere solo la dubbia igiene dei sedili, già corroborati dal noto pezzo di tessuto di nostra conoscenza.
Nel grazioso cortile dell’International Music Ashram dove vi siete recati, nell’inestricabile dedalo dei vicoli di Benares, il giovane musicista di sitar, anche nella raffinatezza della sua arte, non può essere privo del suo straccino per lucidare la cassa armonica, asciugare le corde dal sudore delle sua esecuzione, detergere la fronte, ripulire il tutto prima di riporre il suo prezioso strumento.
Nel piccolo, ma grazioso museo nel cuore dell’università di Benares, alla lieta scoperta della sala dedicata ad Alice Bonner, l’artista svizzera fautrice della riscoperta dell’arte indiana, gustate i quadri e le sculture esposti in compagnia di uno… straccio! Ma in una geniale applicazione del nostro insostituibile strumento: prendere un grosso straccio, legarlo ad una fune, inumidire il tutto, facendolo ruotare con grande perizia, lanciarlo sul pavimento negli angoli e… sui piedi dei visitatori. Recuperarlo, rilanciarlo e cosi via senza pausa e poco risciacquo, ottimo risparmio idrico, e cosi via per tutte le sale. Io le ho visitate tutte insieme al fidato straccio-lazo e alla cow-boy in sari variopinto.
Ma l’india pullula di persone che non possiedono niente altro che gli stracci che indossano. Bambini, donne, essere umani che nascono tra gli stracci, percorrono la loro vita terrena solo tra pochi stracci e come guardaroba hanno un marciapiede, una esistenza che noi definiremmo da cenciosi. Incrociano nella loro vita distaccati asceti e monaci votati alla povertà e al non possesso, avvolti in due pezzi di stoffa con tessuti lisi, ma puliti di dignità e magnetica presenza, che per noi servi dell’apparire e dell’avere, sono solo stracci o destinati a divenire tali. Solo due pezzi di stoffa per sopra e sotto il corpo senza cuciture: non ci devono essere interruzioni al flusso energetico sul piano fisico e alla stabilità della mente concentrata, né dubbiose increspature alla scelta del voto spirituale.
Abiti senza tasche, sicuramente a ricordare il non accumulo, il non possedere, al non potere e volere portare con sè niente da questa Terra (non abbiamo il comune detto popolare… il lenzuolo non ha tasche? Inteso come quello funerario). Teli di francescana fattura, che come dimostrò Baba Shivagiri, il sadhu girovagante, di grande praticità e di una ampia diversità di utilizzi: cappello, borsa, asciugamano, ombrello, sciarpa, coperta, cuscino, corda.
Ricordo intensamente lo straccio intriso di affanno e miseria attorno al collo degli uomini-cavallo di Calcutta alla guida dei loro risciò: asciutti come bambù, con piedi foderati di calli di antica fatica. Un ricordo indelebile dello stento del vivere dell’essere umano e uno dei grandi disagi del primo viaggio indiano: il malessere e la vergogna nell’essere trasportato da un uomo definito animale da soma. I miei pensieri fluttuano fino ad Assisi davanti al ruvido saio di Francesco rattoppato così infinite volte da apparire come una cartina geografica: un altro straccio emanante potenza eterna.
Ma non era uno straccio intriso dei dolori del mondo che Lui indossò morendo sulla croce? Forse a ricordare che si nasce nudi, poi si indossano stracci o abiti magnifici, ma quando si riparte non sarà importante quello con cui ci siamo agghindati, ma quello che saremo stati: regali negli abiti e straccioni nell’animo o viceversa.