Era una notte che ormai tendeva al mattino presto, una notte che segue una giornata impossibile da valutare positivamente visto che mi ritrovavo a vagare in giro in cerca di un bar aperto e una birra che mi aiutasse a dimenticare. Sarebbe andato bene qualsiasi posto, anche il peggiore, il più brutto, quello più malmesso e infatti al primo che vidi mi gettai all’interno senza pensare. «Una birra per favore» chiesi poggiato al bancone. Mi sedetti sullo sgabello tenendo una gamba ancora a toccare per terra e iniziai a girare la testa come faccio ogni volta che sono in un luogo che non conosco, alla mia sinistra rimasi subito folgorato da una figura che oscurò tutte le altre. Una donna di rara bellezza sembrava emanare una luce intrinseca distaccata dallo sfondo, come in un dipinto nel quale si vuole accentuare il soggetto della scena. Feci un sorriso che visto da fuori non poteva che essere deriso, fissandola intensamente senza accorgermene. Ero completamente fuori dall’idea di tentare un approccio, avevo i miei problemi e i miei motivi per stare lì e sinceramente una donna era l’ultima figura con la quale volevo parlare. Ci sono dei momenti in cui un uomo ha bisogno di una birra e di un amico e appena il barista mi stappò la bottiglia davanti avevo toccato il 50% delle mie necessità.
Credo di essere rimasto giusto un filino di troppo a fissarla perché con l’eleganza di un fiorettista m’incalzò: «Se bevi una birra a quest’ora almeno non farla scaldare». Io uscì dalla trance come se mi fossi svegliato di soprassalto dopo il pisolino pomeridiano. «Ehm, no sì, hai ragione…» risposi bevendo un sorso in maniera scomposta. Lei sorrise e si avvicinò. «Problemi di cuore?». «Cosa te lo fa pensare?». «Mh, diciamo che sono del settore». «Si vede tanto eh?». «Anche un cieco l’avrebbe visto». Abbassai la faccia come un cane bastonato, mi mancavano solo le orecchie piegate. «Suvvia non fare così! Voi uomini affranti per amore, non vi capisco, vi comportate come se dipendesse da voi». «Da chi dovrebbe dipendere?». «I problemi di cuore sono tutti colpa di quello sciagurato di mio figlio, maldestro, dispettoso: un eterno bambino!». «Che c’entra tuo figlio?». «Oh, lui c’entra sempre fidati» rispose facendo segno al cameriere, come se dovesse ordinare qualcosa che prende sempre.
Posò una mano sulla mia prendendosi una piacevole ma disarmante confidenza, ma non fu tanto quello a scioccarmi quanto più il forte calore che iniziai a percepire dentro di me come se un po’ di quella luce che la circondava fosse entrata passando per quel contatto lieve. Bevvi un altro sorso, non potevo già essere ubriaco eppure sentivo qualcosa di diverso, inebriante.
«Oh! Che sbadata perdonami, non mi sono presentata: sono Afrodite». «Afrodite», non riuscii a trattenere un sorriso dopo aver ripetuto il nome, «cioè tipo la dea?». «Cosa ridi ingrato! Posso trasformarti in un topo con lo schiocco delle dita». «Scusami hai ragione, sono stato maleducato anch’io» risposi ridendo ancora più forte.
Pensai che fosse iniziato una specie di gioco di ruolo nel quale una bellissima donna si divertiva a prendermi in giro, oppure avevo beccato una squilibrata; una forbita ed elegantissima pazza che vaga di notte per i bar in cerca di vittime disperate da deridere con qualche giochetto mentale. In ogni caso avevo trovato “un’amica” con cui parlare per completare la percentuale dei miei bisogni.
«Preferivo lo sguardo da pesce lesso che avevi prima, piace tanto a voi mortali scherzare ma non pensate mai alle conseguenze delle vostre azioni», riprese, «da queste parti mi chiamavano Venere non se così suona meno strano per te». La serata era quello che era quindi pensai che valesse la pena stare al gioco. Preso in giro o meno, quella donna aveva qualcosa di speciale che mi affascinava, non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. «Okay facciamo che ti credo, sono Alessandro piacere» dissi porgendole la mano. Lei fece un sorriso complice. «Posso offrire da bere a una divinità dell’Olimpo?» continuai. «Con piacere, devi sdebitarti per aver riso del mio nome». Presi da bere anche per lei e iniziammo a parlare. «Quindi mi dicevi… quali grattacapi ti ha dato quella peste di mio figlio?» Chiese. «Ancora tuo figlio…». «Eros». «Credo che l’unico Eros che conosco io non sia tuo figlio». «Come lo chiamano qui… Ah sì Cupido!». «Cupido… certo beh in tal caso diversi problemi, da dove vuoi che cominci?». «No, ti prego niente sproloqui deliranti su quanto sia devastante l’amore e bla bla bla… lo so già». «Non credo di avere altri argomenti per stasera». «Sì che ne hai! Incontri una bellissima donna che ti dona la sua rara e preziosa confidenza in un bar e non le dici nulla? Parlami di te».
Una bella donna che mi chiede di parlare di me mi mette sempre in difficoltà e se sono in questo bar in piena notte è perché un’altra donna mi chiese la stessa cosa tempo fa… non finisce mai bene in questi casi. «Sai, se sono qui stasera è perché questa domanda crea sempre un domino di problemi». «L’unico problema di voi mortali è che non vi rendete conto del tempo che passa». Per un momento avevo dimenticato del gioco ma quel “voi mortali” mi riportò nel vivo della partita. «Certo perché tu, in quanto dea, sai bene cosa vuol dire l’infinità del tempo» ironizzai. «Tu hai i giorni contati su questo mondo e comunque ne sprechi interi a pensare ad una donna che se n’è andata e ti fa stare così». «Che ne sai che se n’è andata?». «So più cose di quanto pensi e so anche che tu non mi credi ma io sono curiosa e purtroppo ignoro tanti aspetti di voi esseri umani, dimmelo tu il perché, perché tu butti notti come questa per una persona che è andata via?».
«Se lo sapessi non sarei qui», risposi serio. Poi improvvisamente il mio tono cambiò, in qualche modo non mi andava a genio che una qualunque donna incontrata in un bar di notte si atteggiasse a divinità solo per prendersi gioco di me e di quello che stavo provando, quindi continuai con spirito diverso a parlare: «Dovresti dirmelo tu perché buttare il mio tempo così, forse perché il mio tempo ha perso di valore senza di lei, o forse perché voi donne sapete fare solo questo, gettare via cose preziose e vedere fiori appassire davanti ai vostri occhi senza fare nulla per fermare il processo» conclusi arrabbiato. «Generalizzare è molto da uomo sai», riprese lei altezzosa, «ti perdono perché percepisco sempre il dolore di un cuore spezzato, ma non siamo noi donne a non dare il valore alle cose che abbiamo, siete tutti voi mortali… anche tu in questo momento non stai dando valore al tuo tempo, come ti ho già detto».
Non ero davvero arrabbiato e sinceramente non avevo la forza di dar forza alle mie convinzioni. Presi la mia birra in mano e tirai giù un sorso deciso. «Forse sei tu che non stai dando valore al tuo tempo passandolo con me questa notte» commentai affranto. «Il mio di tempo già di per sé non ha valore, perché è illimitato, infinito… e quando una risorsa esiste in quantità illimitata non ha valore, pensaci…», mentre diceva questo tirò fuori dalla tasca un oggetto e continuò, «vedi questa, questa è una foglia d’oro puro, secondo te perché per voi mortali vale tanto denaro?». La domanda mi spiazzò ma risposi: «Perché è preziosa». «Rara e limitata», incalzò lei rapidamente, «sono questi fattori che danno valore alle cose, specialmente per voi umani; il tuo tempo è esattamente così, limitato».
Aveva ragione. Non faceva una piega il suo discorso ma ero pur sempre un uomo che ha visto partire e andare via per sempre la donna che ama, non potendo far nulla per fermarla.
«Scioccato eh? Lo so, le dee come me fanno questo effetto, anzi io più di tutte e dovresti saperlo». «Sei saggia e mi piacerebbe essere dell’umore per brindare a quello che mi hai detto… ma non credo che gli dei esistano». «Va bene insulso ometto, di solito non sono così paziente ma per la seconda volta ti perdono perché sei vittima dell’amore e da quello, ahimè, non si scappa… forza, indicami la persona che trovi meno attraente in questo bar».
Considerando che era notte le anime nel bar scarseggiavano, la scelta non era molta, quindi indicai ridendo una donna, probabilmente un’infermiera che aveva finito il turno. Non me ne voglia ma in quel momento non trovai in lei nulla di attraente.
«Ora sta a vedere» disse la presunta dea.
Dopo qualche secondo il fuoco dell’immagine che vedevo con i miei occhi era centrato su quella donna, solo su quel viso stanco, non riuscivo a distogliere lo sguardo e sentii, da dentro lo stomaco, partire quello stesso calore appagante che avevo provato quando la dea mi aveva sfiorato il braccio all’inizio della nostra conversazione. Stupore, commozione, desiderio, malinconia… era tutto condensato in una figura che oscurò tutte le altre e improvvisamente come se avessi visto il quadro più bello del mondo al quale si dedica l’intera sala del museo.
Uno schiocco di dita mi riportò alla realtà. Erano passate ore di emozioni in pochissimi secondi.
«Ora mi credi?». «Co-cosa è successo?». «Hai visto per la prima volta la vera bellezza mio caro». Guardai di nuovo quella donna e provai sensazioni miste; non era più affascinante tanto da oscurare tutto come prima ma la guardai con la malinconia con cui si guarda un bel ricordo. «Ora mi credi?» Chiese di nuovo la dea. «Probabilmente sono ubriaco». «Avete sempre una scusa per negare l’evidenza», rispose alzandosi, «stasera sono buona, vieni con me». Mi fece segno di seguirla. Presi il portafogli per pagare ma lei mi bloccò il braccio, guardò il barista intensamente e mi trascinò fuori. «Scusa ma come…».
Lungo la strada deserta fuori dal retro del bar si fermò davanti una pozzanghera e mi fece segno di seguirla. Bella era bella davvero, quella luce che emanava sembrava seguirla. M’indico di guardare nell’acqua e pochi secondi dopo ebbi un’immagine nitida davanti a me. La donna che amavo, seduta sul divano, una stanza che non avevo mai visto, aveva lo stesso volto stanco e triste di quell’infermiera. «Stai facendo di nuovo la tua “magia”». «Nessuna magia mio caro, per chi mi hai preso? Sono la dea della bellezza è vero, ma non posso rendere meravigliosa qualcosa che già lo è per te». Guardai di nuovo in quella pozza d’acqua e l’immagine stava svanendo. «Sai cosa devi fare» disse la dea, ma quando mi girai non c’era nessuno, solo una piccola colomba bianca che beveva da quella stessa pozzanghera. La guardai e lei spiccò il volo.