Rivedersi ragazzino in una fiction Rai non è certo da tutti, anche se qualcuno ne farebbe volentieri a meno. Così come di presenziare alle cerimonie pubbliche, essere ospiti nei salotti più in vista. È il caso di chi è abituato ad essere sotto i riflettori dei teatri e degli auditorium per le proprie esibizioni musicali, ma che si ferma a ricordare un pezzo della propria storia per amore della verità, contributo al Ricordo e per la dolce memoria di un padre. Ritornare su “L’assassinio di mio padre e le altre ferite mai chiuse” non è facile e comodo, perché “Ricordare stanca”, ci racconta Massimo Coco, centellinando un distillato accanto alla custodia che contiene il suo violino.
Violinista professionista che ha trasformato per molti la vita in una melodia splendida e armonica, insegna alla Cattedra di Violino del Conservatorio “Niccolò Paganini” di Genova, città teatro dell’uccisione del padre, Procuratore generale dello Stato, assassinato dalle Brigate Rosse nel 1976, con i due uomini di scorta. Francesco Coco è una delle vittime spesso dimenticate del terrorismo, e non perché la prima in ordine di tempo dei brigatisti rossi. Massimo Coco, vittima anch’egli di più o meno velate minacce, di sicuri pedinamenti, di volantinaggio clandestino lasciato sui banchi di scuola o degli slogan scandito un po’ dappertutto prima e dopo l’assassinio del papà, ne parla ampiamente ma mestamente, lontano dai riflettori del “politically correct”, con parole che acquistano un significato forte, vero, denso.
Massimo ama molto la scelta dei giusti termini e di parole desuete per il parlato comune, ma rotonde, connotate, spesse. Figlio di Francesco e di quelle istituzioni che l’hanno tradito, che talvolta, secondo lui, tradiscono la memoria non solo di suo padre, tramutando la Storia in una serie di morti, ma di serie A o di serie B. Massimo chiama questa suddivisione in “vittime” e “viptime”, con tanto di classi del Victimarium, e legge del modo in cui si usano le lacrime. Il discorso di Massimo non è uno sfogo, ma la traccia di una verità che, come hanno scritto e detto tanti grandi autori, deve essere taciuta o detta lentamente, a piccole dosi. La verità di Coco è quella ultima, dopo libri e libri, parole e parole, oggi che si guarda agli Anni di Piombo con un po’ più di distacco, che dovrebbe permettere di essere più oggettivi e meno legati a giochi, legami, dolore. Tanto dolore. Delineato appunto in un film Rai, andato in onda da poco in prima serata, che ha spiegato la vicenda del giudice Mario Sossi, rapito dalle Brigate Rosse e proposto come scambio di prigionieri: la sua libertà in cambio di quella di terroristi condannati. Lo Stato trattò lo scambio, ma il giudice Coco (esperto di rapimenti, dopo la stagione in magistratura nella sua Sardegna ferita dall’Anonima, poi Procuratore a Genova) impugnò la decisione, come in suo potere e come gli permetteva la legge, designando così una linea di condotta sulla quale, nel proseguo degli anni di sangue, non si tornò più indietro.
Francesco Coco. Il primo magistrato assassinato perché servitore leale dello Stato, con i suoi uomini di scorta: un poliziotto, Giovanni Saponara, e un carabiniere, Antioco Dejana. “Ho scritto di mio padre sollecitato dall’editore, e so che ne è uscito un libro scomodo, graffiante, che insegna e che pone interrogativi, come ogni bravo insegnante dovrebbe sempre fare”. Traccia un percorso, accidentato, difficile Massimo, che transita dai cuori e dalle coscienze. “Qualcuno mi ha chiesto se Sossi e mio padre erano della stessa ideologia: forse non siamo più molto abituati a uomini che sono tutti d’un pezzo. Sossi e Coco erano giudici, non avevano ideologia quando si trattava di prendere decisioni in base alla legge, di applicare la legge e di permettere di farla rispettare”.
Il quesito che sembra imperante dinanzi a persone che scelgono di parlare quando sembra che tutti preferiscano che tacciano, è sempre lo stesso, ed è lo stesso che si sente ripetere Massimo: “Non è capace di perdonare? Non sa perdonare? Non perdona e quindi parla e scrive?”. L’ho domandato anch’io, al figlio, al musicista ora anche padre, all’uomo. “Perdonare chi? Non ci sono colpevoli per l’uccisione di mio padre e dei due uomini di scorta. I testimoni hanno ritrattato, chi ha visto non ricorda o non sa. Nessuno mi ha chiesto di perdonarlo e volendo andarlo a cercare non so di preciso chi sia. Quando sono in rappresentanza dell’Associazione Vittime del Terrorismo, spesso è questa la polemica che viene scatenata e sembra che non si voglia ascoltare la mia risposta.
Perché perdonare chi non si conosce? Perché perdonare chi non vuole perdono? Perché dev’essere vietato per forza odiare? Questa la posizione dal mio punto di vista, ma non tralascio di puntualizzare che il principio della condizione irreversibile del dare la morte sia proprio che chi dovrebbe concedere il perdono non può farlo perché non è più. Quindi l’unico titolato a rispondere davvero a queste domande sarebbe mio padre: io non posso decidere, scegliere per lui. E lui non può più, da quel tragico 8 giugno 1978”. Massimo Coco rivendica questi diritti, e il diritto alla vendetta morale, al fare sentire l’antagonista “un verme”, perché riecheggiano ancora nelle sue orecchie gli slogan: “Coco, Coco. È ancora troppo poco”. Quando il suo papà era già stato ucciso, nel tripudio dei terroristi che ne rivendicarono l’azione durante il processo che li vedeva imputati in Corte d’Assise a Torino. Nell’Italia e nell’Europa che deve garantire la Memoria, la tutela dei deboli e degli indifesi, del diritto di parola, perché, sostiene Massimo Coco: “non deve essere difeso il diritto di dire quello che si pensa, senza rivendicazioni estremiste, ma solo personali”?
Massimo, propone una visione di un fenomeno visto davvero dalla parte delle vittime, lungi dal volere vendetta in senso stretto che non passi da quella sacrosanta della magistratura, la stessa magistratura della quale Francesco Coco era servitore devoto, preciso e fedele. Tanto da dare la sua vita, sapendo di essere vittima designata, dopo la sua decisione di compiere in coscienza il suo dovere, prima che il suo lavoro, di magistrato. “Per questo ho citato Dante in una visione tutta mia dell’Inferno: alle “viptime” il Paradiso, agli altri (suddivisi per categorie di vittime in senso stretto, parenti, eccetera) le bolge o i gironi. E questo perché nella realtà si tratta comunque di un grande inferno comune, che inferno resta anche se pochi, selezionati eletti possono permettersi di viaggiare in prima classe. È una Comune di dannati, è il grande Club dei diseredati, è l’unico mal comune che non diventa mai mezzo gaudio. E se è un sommo Olimpo, lo è di sfigati. Rispetto all’Inferno considerato nell’accezione tradizionale, a questa nostra esclusiva e riservatissima dannazione eterna non si giunge né per volontaria responsabilità, né tanto meno per giansenistica predestinazione; ci si finisce molto semplicemente per colpe altrui, e “guai ai vinti” perché si tratta di una condanna eterna vecchio stile: “fine pena: mai”.
È ergastolo, sentenza inappellabile, nessuna grazia regia o presidenziale, niente indulto, amnistia, patteggiamento, legislazione premiale, scarcerazione per buona condotta, permessi premio, lavoro retribuito in amene comunità, assoluzione di piazza, visite di parlamentari che come novelli Re Magi portino in dono speranza, empatia e solidarietà; niente status di rifugiato politico ottenuto tramite cordate internazionali, assegnazioni ai servizi sociali con sede di lavoro sotto casa, perdono da figliol prodigo, crociere premio, nuova identità protetta, baci sulla fronte dal parroco del carcere. Niente di niente, questa condanna si sconta e basta, da veri irriducibili, e con l’amarezza supplementare che finora nessuno ha voluto riconoscerci nemmeno la sacrosanta esclusività dell’essere noi la categoria nazionale che, come estremo, strenuo e inespugnabile baluardo, sia in grado ancora oggi di rappresentare e garantire la mitica-chimerica-fossile-leggendaria certezza della pena”.
È proprio quel “niente di niente” a risuonare sinistro e profondamente terribile. La nullità dopo la tragedia. Perché, allora, uno già nell’Inferno senza la guida di Virgilio va a rovistare ancora dentro al dolore? Suo e altrui? “Ebbene, il mio non è un rosicare invidioso verso chi abbia il superattico bella vista, né sono un guardone delle sciagure altrui, ma semplicemente svolgo un’indagine da osservatore qualificato”. Massimo Coco prosegue la sua indagine tra le carte, le vite, sottolineando cosa c’è che non va e cosa sarebbe meglio migliorare. E lo fa senza la pretesa di essere ascoltato, ma con il sarcasmo tipico degli oratori di un tempo, di chi conosceva bene il senso del suo dire, il contenuto dei suoi proclami, di chi conosceva e conosce bene la retorica per poter ottenere di scuotere le coscienze. E non quelle di qualcuno in particolare: le nostre. Quelle di tutti. Che siamo stati vittime del terrorismo, attori in uno scenario impazzito che, in molte città, faceva pensare alla fortuna di essere tornati a casa vivi, mentre le bombe erano nelle cabine telefoniche, tra i binari ferroviari, o in qualsiasi altra parte. E non si rivolge a colpevoli o innocenti, protagonisti o spettatori, Coco, bensì a tutti gli italiani che non vogliono abituarsi proprio al politicamente corretto, alle frasi dette e poi “fraintese”, alla vera o presunta assenza di libertà di espressione, alla cancellazione o alla mediazione del dibattito perché così la serata è più distesa e si lasciano a scannarsi soltanto gli aspiranti addetti dello spettacolo.
La storia di Massimo Coco e di suo padre è incalzante, fastidiosa, stride e incalza ancora. Chiede ascolto, considerazione, memoria vera. Per suo padre, per suo figlio. Tutti e due Francesco. Perché adesso Francesco deve sapere chi era il nonno di cui porta il nome e chi è chi l’ha ucciso. Sapere che non era un extraterrestre, anche se secondo Massimo ci sono “le persone UFO”, le “viptime”; “Insegnare a mio figlio significa aiutare anche altri a sapere di più su noi stessi, su ciò che vogliamo nel nostro futuro, e su come vogliamo costruire la storia senza dimenticarcene qualche pezzo”.
Che importanza ha avuto la fiction proposta in televisione?
“Senz’altro quella di porre l’attenzione su fatti che oggi stiamo iniziando a considerare con maggiore obiettività, anche se ne siamo ancora troppo vicini e coinvolti; tuttavia soltanto la conoscenza genera persone veramente libere e una democrazia veramente tale. Quindi posso dire che ho iniziato un buon rapporto di amicizia con il regista del film che ha tenuto in considerazione i punti di vista sia miei che delle figlie del giudice Sossi, cercando di non fare diventare la storia solo un’icona, quasi una targa da mettere da qualche parte, ma una storia di vita vera, piena di empatia, di verità, di vita vissuta come quella di tutti. Con un lutto terribile di differenza”.
Da bravo professore, Massimo Coco propone una lezione di vita, la sua, affinché si formi una coscienza, non del giusto (perdonare o no?), non del più giusto (“sicuramente ho ragione io”, qualunque sia la ragione di cui si parla), non della vendetta o della condanna, ma della giustizia. Che possa consolare un dolore al quale i parenti delle vittime sono stati condannati senza colpa. E che possa permettere a tutti noi di sapere per ricordare e mantenere la memoria necessaria per non avere lasciato morti vane per lo Stato.