Ogni volta che leggo i giornali, principalmente in lingua straniera, e trovo discussioni sulla possibilità dell’uso di armi nucleari, la reazione che ho è sempre la stessa: no.

Immagino sia la risposta di ogni persona di buonsenso, ma non è così, vista la dovizia di video facilmente reperibili sui social media che descrivono il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki come un male necessario per concludere rapidamente la guerra.

In Occidente, abbiamo due tipi di problemi quando consideriamo la storia della Seconda Guerra Mondiale in Asia: il primo è che la narrazione ce la dà chi ha vinto la guerra, e questo non significa necessariamente che i fatti siano falsi, ma l’interpretazione che se ne dà è quantomeno parziale; l’altro è che, in questo caso, conosciamo ben poco della storia dei vinti fino a quando non fanno il loro ingresso nella storia dei vincitori.

Per tanti di noi, la Storia del Giappone si riassume in tre nomi: samurai, Pearl Harbor, kamikaze. Tra l’ascesa dei bushi 武士 come classe dominante nel tardo XII secolo e l’attacco alla base navale di Pearl Harbor nel 1941, passano settecento anni di storia che per lo più non conosciamo e, di conseguenza, ci manca il materiale per poter “vedere” le cose dalla prospettiva dell’altro.

Sappiamo che la Germania, l’Italia e il Giappone erano alleati, e forse abbiamo anche sentito l’espressione “fascismo giapponese”. Quando perfino uno storico di provata fede marxista come Alessandro Barbero fa un video per spiegare che in effetti il Giappone non ebbe un regime fascista nemmeno negli anni più bui della guerra, vale la pena riflettere. “Fascismo” è un termine con un significato ben preciso e spesso a sproposito per delegittimare immediatamente l’avversario o la sua posizione. Perché un regime possa definirsi propriamente “fascista” deve possedere una serie di caratteristiche, fra le quali:

  • un’ideologia che predichi la superiorità su base razziale
  • un’ideologia che predichi l’inferiorità del nemico, sempre su base razziale
  • il culto della personalità del leader
  • il vagheggiamento del ritorno a un passato glorioso.

Il Giappone, fra gli anni ’20 e la metà degli anni ’40, non rientra in queste categorie. Primo, perché non ha mai affermato di essere una “razza” superiore. Secondo, perché non ha avuto nessun culto della personalità del leader. Terzo, perché non ha mai vagheggiato il ritorno a un passato glorioso.

Per cominciare a fare chiarezza, si dovrebbe smettere di chiamare il sovrano del Giappone “imperatore” perché “imperatore” presuppone l’esercizio dell’imperium, cioè del potere. Il termine giapponese, tennō 天皇, “sovrano o imperatore del Cielo”, non ha nulla a che vedere con il potere o l’autorità. Come se non bastasse, il sovrano giapponese smise di esercitare il potere effettivo più o meno in coincidenza con l’ascesa della classe dei bushi nel XII secolo.

Come era scoppiata la guerra?

L’attacco “proditorio” a Pearl Harbor, nel 1941, lo conosciamo tutti, malgrado siano disponibili pubblicamente le intercettazioni decodificate e tradotte dei dispacci che l’ambasciata giapponese a Washington inviava a Tōkyō parlando dell’avvicinarsi della guerra, già mesi prima dell’attacco. La guerra inizia molto prima, con la messa in scena dell’Incidente di Mukden, nel 1937, e il casus belli per l’invasione giapponese della Cina. Fra l’incidente di Mukden e l’attacco a Pearl Harbor passano quattro anni di sanzioni economiche, commerciali, politiche, ma neppure sapere questo è sufficiente se non si è a conoscenza del pregresso.

Fino al 1922, il Giappone era stato alleato della Gran Bretagna. Aveva combattuto a fianco delle forze alleate contro le colonie tedesche in Cina, per poi vedersi obbligato a restituirle dalla conferenza di pace di Versailles. In precedenza, aveva sconfitto sia la Russia zarista (1904-1905) che la Cina dei Qing (1894-1905), aveva partecipato, assieme ad altre nazioni europee, alla missione per reprimere la Rivolta dei Boxer a Pechino (1900), e questo dopo essere passato, nell’arco di cinquant’anni, da Nazione sostanzialmente invariata dal 1600 al 1854 a nazione asiatica in grado di competere alla pari con le potenze occidentali.

Come si era arrivati a questo? Passando per le forche caudine dei trattati ineguali imposti al Giappone dopo l’apertura forzata dietro minaccia della marina militare statunitense, nel 1853-1854.

I lettori affezionati alla narrazione dell’inevitabilità dell’uso delle armi nucleari, ma che si ritengono anche di idee progressiste, farebbero bene a ricordare la mozione proposta dal Giappone alla Società delle Nazioni, poi bocciata, per includere nelle Carta una clausola che condannasse apertamente le discriminazioni razziali fra i membri della Società stessa.

John Dower, nel suo monumentale saggio War without Mercy, mostra come la propaganda americana e la propaganda giapponese durante la guerra differissero in modo radicale: la propaganda americana era incentrata sulla deumanizzazione del nemico, tipicamente rappresentato come un verme, una scimmia, un subumano astuto, ma brutale e crudele. Per chi avesse visto Colazione da Tiffany, la caricatura del gentiluomo giapponese con gli occhiali rotondi, gli occhi a fessura e i denti sporgenti è esattamente frutto di quel tipo di rappresentazione. La propaganda giapponese, invece di deumanizzare l’avversario, era più incentrata sul racconto della superiorità implicita della nazione giapponese. Si noti bene: nazione, non razza.

Nella narrazione della propaganda, questo deriva dal fatto che il Giappone, a differenza di tutte le altre nazioni sulla Terra, è retto da una medesima linea di sovrani fin dall’origine dei tempi, e questi sovrani partecipano in parte della natura di ciò che ha portato il Giappone in essere, cioè i kami.

Ora, è facile commettere l’errore di presumere che kami 神 equivalga a “dio” come lo concepiamo noi, e quindi presumere che, quando i giapponesi dicevano, o dicono, che il sovrano è un kami, stiano dicendo che il sovrano è un dio nella stessa misura in cui noi diciamo che Gesù fosse Dio. L’assunto è completamente sbagliato. Kami non corrisponde affatto all’idea di Dio nella tradizione giudaico-cristiana. Si veda, in questo caso, la definizione di kami proposta da Motoori Norinaga, il più importante esponente del movimento degli Studi Nazionali, o kokugaku, che prese le mosse proprio dal contatto con la civiltà occidentale. Secondo Motoori, è kami, cioè che provoca nell’essere umano una sensazione di timore, reverenza o meraviglia. Dal punto di vista della teologia cristiana, specie in Sant’Agostino, si potrebbe trovare un equivalente nella differenza fra latria, che è l’adorazione riservata a Dio, e dulia, che è la venerazione diretta verso gli angeli e i santi. Il tennō giapponese non è mai stato oggetto di latria, solo di dulia.

Sarebbe anche opportuno tenere a mente l’idea di “Destino Manifesto”, la convinzione, cioè, che gli Stati Uniti d’America fossero destinati da Dio a espandersi verso occidente, il che li portava inevitabilmente a contatto con l’Asia. Tant’è che, nel 1898, gli americani combatterono e scacciarono gli spagnoli dalle loro colonie nelle Filippine, per potersene appropriare.

L’ideologia giapponese nella Seconda guerra mondiale

Una guerra, per poter essere protratta nel tempo, necessita di una ideologia e di un piano logistico. La prima nutre il cuore e la mente del popolo, il secondo nutre l’industria e l’economia. Proprio come oggi, il petrolio era l’elemento imprescindibile della logistica e, proprio come oggi, il Giappone ne era completamente sprovvisto. Ecco il perché dell’attacco alle colonie olandesi in Indonesia ed ecco perché l’attacco alla base di Pearl Harbor: si trattava si impossessarsi delle riserve di petrolio necessarie alla guerra in Cina e nel resto dell’Asia e, contemporaneamente, di prevenire un intervento militare americano prima che le operazioni fossero concluse. Come Napoleone e Hitler, il comando supremo giapponese imparò a proprie spese che quello che è noto agli studenti di storia militare: nessuna nazione vince una guerra d’aggressione su due fronti diversi contemporaneamente.

L’ideologia giapponese si fondava su una serie di principi cardine. Il succitato rapporto tra il mondo metafisico e quello fisico, personificato dalla presenza della famiglia imperiale, è chiamato kokutai 国体. Ad esso è associato lo hakkō ichiū 八紘一宇, “ogni angolo della terra sotto un unico cielo”, inteso come l’unificazione del mondo sotto l’egida del Giappone. Si tratta di una revisione dell’ideologia della Cina imperiale. Secondo quello che viene chiamato il “Sistema dei Tributi”, 朝貢制度 (cháogòng zhìdù), la Cina era letteralmente il paese di mezzo, zhōngguò 中国, perché dimostrava un’etica, una morale e una cultura superiori, motivo della sua posizione di privilegiata rispetto alle nazioni satellite. Il Giappone, d’altra parte, doveva essere la nazione egemone per la sua relazione privilegiata con il metafisico.

Il risultato concreto doveva essere la creazione di una Sfera di co-prosperità dell’Asia Orientale, cioè dell’applicazione pratica dell’idea, in linea di principio condivisibile, che l’Asia dovesse essere degli asiatici, ma sotto l’autorità della nazione giapponese.

In Defending Japan’s war in the Pacific, David Williams collega la posizione filosofica della scuola Kyōto alle sorti del conflitto. La scuola di Kyōto venne fondata da un gruppo di filosofi fra i quali uno, Nishida Kitarō, era stato studente di Heidegger in Germania. L’assunto della scuola di Kyōto era che il Giappone aveva il diritto di scatenare una guerra, ma avrebbe potuto vincerla solo se si fosse dimostrato eticamente e moralmente superiore agli avversari. Allo stesso tempo, la sconfitta della guerra avrebbe significato che il Giappone aveva mancato nel dimostrarsi moralmente ed eticamente superiore. Le sofferenze patite dalle ex-colonie europee passate sotto l’amministrazione dell’esercito giapponese ne sono testamento sufficiente, anche senza scomodare i fatti più scabrosi avvenuti in Cina, come gli eventi dello stupro di Nanchino o le attività dell’Unità 731, grosso modo equivalenti a quelle di Mengele a Birkenau.

Per inciso, la maggior parte degli scienziati coinvolti nelle attività dell’Unità 731, invece di subire il Processo di Tōkyō, fu graziata e portata negli Stati Uniti, segnando l’inizio del programma di ricerca americano sulle armi batteriologiche. La stessa cosa fece l’Unione Sovietica, che per prima mise le mani sulle scorte di bacilli dell’antrace nella base dell’Unità 731 a Píngfáng, in Cina.

Dov’è che le cose vanno storte?

Arriviamo dunque al 1944. La guerra è perduta. Lo sanno i giapponesi e lo sanno gli americani. I territori conquistati nei primi due anni di guerra sono quasi completamente perduti. Le navi da trasporto che traghettano il petrolio verso il Giappone sono state sistematicamente distrutte, paralizzando sia l’industria bellica che quella civile. Le maggiori città giapponesi sono oggetto di continui bombardamenti da parte dei B-29 americani, che sganciano bombe incendiarie su città costruite prevalentemente di legno e di carta, con prevedibili effetti.

La campagna di quello che viene definito high-saturation bombing, cioè bombardamento a tappeto, viene talvolta accostata a quella subita dalle città tedesche, ma il paragone è fuori luogo. La narrativa sul bombardamento di Dresda è stata largamente disconosciuta in anni recenti, poiché basata principalmente sul libro The Destruction of Dresden di David Irving, uno storico britannico simpatizzante nazista che, oltre a negare l’Olocausto degli Ebrei, basò le proprie stime su documenti falsificati e aneddoti orali. Nessuno ha ancora contestato il fatto che nel solo bombardamento di Tōkyō del 25 marzo 1944 morirono 100.000 persone e un milione rimase senza casa, poiché l’80% della città venne raso al suolo dalle fiamme.

I giapponesi, tramite l’ambasciatore Satō Naotake, chiesero ai Sovietici, con i quali avevano firmato un trattato di non aggressione nel 1941, di intavolare trattative per la resa con gli Alleati. La sola condizione posta fu di non processare il sovrano. La Dichiarazione di Potsdam (26 luglio 1945), insisteva su una resa senza condizioni, senza offrire garanzie. A questo punto, con l’Italia fuori gioco, la Germania nazista sconfitta, e tutte le condizioni in essere nel 1944 ulteriormente aggravatesi, a cosa serve la bomba atomica? Vi sono ragioni di carattere economico, politico e scientifico.

Truman dirà, nel suo annuncio dell’avvenuto bombardamento, che gli Stati Uniti avevano speso più di due miliardi di dollari nella più folle scommessa scientifica della Storia, e avevano vinto. In valuta corrente, si tratta di 34 miliardi di dollari. A fronte di un simile investimento, bisognava poter mostrare qualcosa. Per avere un termine di paragone, nel 1947, il celebre aviatore Howard Hughes venne portato davanti a una commissione investigativa del Senato per avere ricevuto 40 milioni di dollari di allora per sviluppare aerei che non aveva poi consegnato.

Dopo la conferenza di Yalta, era chiaro che l’impero britannico non era più la potenza di un tempo, e che la partita si sarebbe giocata tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Bisognava giocare d’anticipo, mostrando un’arma come nessun’altra, fintanto che il nuovo assetto dell’ordine mondiale era ancora in fase di definizione.

Inoltre, l’esperimento di Los Alamos che aveva coronato il progetto Manhattan era stato condotto nel deserto, non su una città, quindi, la stima dei danni provocati era solo ipotetica. E, proprio come si svolge una prova A/B sui social media odierni, per vedere quale funziona meglio, l’esperimento venne ripetuto due volte, su due città dal valore militare pressoché nullo, con due bombe diverse. Per esempio, la base militare di Kure, dove era stata varata la corazzata Yamato e da dove era partita parte della flotta che aveva attaccato Pearl Harbor, è ad appena 24 chilometri di distanza da Hiroshima. La bomba avrebbe potuto essere lanciata su un obiettivo militare, o in mare, invece, vennero scelti due obiettivi civili per mandare un chiaro messaggio: la popolazione civile sarebbe stata sterminata.

I pianificatori statunitensi stimavano che l’invasione di terra dell’arcipelago giapponese, o Operation Downfall, sarebbe stata ancora più imponente dello sbarco in Normandia e sarebbe costata fino a un milione di vite americane. Le vittime giapponesi venivano valutate potenzialmente in decine di milioni. Queste stime erano basate sull’esperienza della guerra del Pacifico e, in particolare, sulla recente campagna di Iō Jima. La Battaglia di Iō Jima si protrasse dal 19 febbraio al 26 marzo 1945 e fu la più sanguinosa di tutte quelle combattute nel teatro asiatico, sia per l’esercito americano che per quello giapponese.

I civili di Okinawa, coinvolti, loro malgrado, in uno scontro di una ferocia senza precedenti, ampiamente superiore a quella di qualunque battaglia combattuta in Europa, morirono a decine di migliaia. Le stime più alte parlano di 150.000. La battaglia di Stalingrado, per fare un confronto, costò la vita a un numero di civili stimato fra i 40.000 e i 60.000. Tra morti e feriti, gli americani persero 50.000 uomini. Questo dà l’idea del tipo di resistenza che il Comando statunitense si aspettavano una volta sbarcati sul territorio giapponese.

Il 7 agosto del 1945, il giorno dopo il bombardamento atomico di Hiroshima, l’Unione Sovietica denunciò il patto di non aggressione con il Giappone e procedette a invadere i territori ancora presidiati dalle truppe giapponesi in Manchuria e nelle isole Sakhalin, nel tentativo di avanzare il più possibile la propria posizione in Asia prima della capitolazione del Giappone.

Il Giappone si arrese il 15 agosto 1945.
Quando il 15 agosto 1945 venne diffuso per radio il messaggio del Sovrano che dichiarava la fine della guerra ed esortava il popolo a “sopportare l’insopportabile”, qualsiasi operazione militare giapponese cessò immediatamente. Non vi fu un solo episodio di violenza o tentativo di resistenza alle truppe d’occupazione. Gli unici soldati a non arrendersi furono quelli di stanza su isole talmente lontane da non poter essere raggiunte dalla trasmissione radio, i cosiddetti 残留日本兵 (zanryū Nihon-hei), o “soldati giapponesi rimasti”, alcuni dei quali continuarono a condurre operazioni di guerriglia fino alla prima metà degli anni ’70 . Dunque, se questo era possibile perché non è stato fatto prima?

Le alte sfere del governo giapponese erano consapevoli che, se il sovrano fosse stato processato e condannato come responsabile della guerra, malgrado essa fosse stata condotta in suo nome ma non per suo ordine, questo avrebbe distrutto la natura stessa della nazione giapponese, motivo per cui erano disposti a trattare la resa a condizione di avere garanzie circa la sua incolumità.

L’effetto dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki fu di convincere il sovrano che la guerra, già di per sé persa, avrebbe significato l’annientamento del Giappone in quanto tale. Un risultato analogo si sarebbe potuto ottenere con mezzi convenzionali nel corso del tempo. Tuttavia, l’urgenza di affrontare immediatamente l’ascesa della potenza sovietica in Asia e la necessità di dimostrare il possesso di un’arma senza equivalenti nell’arsenale delle altre potenze rimaste ebbe il sopravvento.

Guardando le cose in prospettiva, l’occupazione americana fu il minore dei mali possibili, malgrado una serie di “riforme” forzate mirate a cambiare la natura dello Stato, della popolazione e della cultura in senso lato. Si pensi ad esempio alle modifiche al sistema di scrittura, alla lingua, all’imposizione di una nuova costituzione nel 1947 con l’esplicita rinuncia alla guerra e al diritto di possedere forze militari. Le cose sarebbero andate molto peggio se all’occupazione avessero partecipato anche l’Unione Sovietica o la Cina. Lo scempio del patrimonio culturale cinese durante la Rivoluzione Culturale fu di tale inaudita portata che al giorno d’oggi buona parte di quella cultura sopravvive solo nelle testimonianze rimaste in Giappone. Non è difficile immaginare che una sorte simile sarebbe toccata anche al Giappone.

Se la guerra era già persa nel 1944, se un negoziato era effettivamente in corso, e se lo stesso risultato sarebbe stato possibile con altri mezzi, la conclusione è che il bombardamento atomico su Hiroshima e Nagasaki fu un atto del tutto gratuito e inutile tramite cui vennero inflitte sofferenze indescrivibili e orrori fino ad allora sconosciuti a una popolazione civile provata da 8 anni di guerra. A tutti gli effetti, un crimine contro l’umanità.