Sono grata al primo libro letto e non mi riferisco a quello assegnato come compito per le vacanze. Stand by me – ricordo di un’estate lo aveva preceduto la La ragazza di Bube e una serie di classici meravigliosi, il cui mero scopo, all’epoca, percepivo come di addottrinarmi. Eco, riferendosi a questi ultimi, ne dà una definizione sociologica, priva di giudizi di merito. “Un classico è un libro che tutti odiano perché sono stati obbligati a studiarlo a scuola (…) La scuola è organizzata in modo da farvi odiare i classici, indipendentemente dalla bravura del vostro professore (…) Un classico è un sopravvissuto”. Avevo compiuto quattordici anni da poco quando comprai il primo libro. Ne avevo letti tanti di belli ma, senza avvertirne l’urgenza.
Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, perché le parole le immiseriscono – le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portar via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare.
L’autunno dell’innocenza, Il corpo, Stand by me – Stagioni diverse, Stephen King
Oggi lo riprendo in mano. Il libro è scollato e la prima pagina porta varie scritte a penna blu. Le prime risalgono all’agosto del ’91 ma, ce ne sono altre dell’aprile del ’93, una serie di “ti amo” e “chiamami”, con il numero di telefono fisso del ragazzo con cui uscivo. L’estate del ’91 era la seconda estate dopo il divorzio dei miei, epilogo felice di una relazione durata troppo. Sul litorale Domizio sembrava non succedere nulla, a parte l’adolescenza. “L’autunno dell’innocenza” è uno dei quattro racconti contenuti nel libro, insieme a “una parola di conclusione” in cui King scrive: “Okay. Ho finito. Fino a quando non c’incontreremo di nuovo, tieni la testa ben piantata sul collo, leggi qualche buon libro, sii efficiente, sii felice”.
A quattordici anni sentivo, tra le altre cose, solitudine e incomprensione. Della prima trasportavo, a tratti, soddisfazione e della seconda mera afflizione. Complice probabilmente il film di Rob Reiner dell’86, il racconto è un elogio alla condivisione. Lo lessi tutto di un fiato. In ascensore, in camera, nella piscina dell’albergo dozzinale che ci ospitava. Fino alla fine, non potendone fare a meno. Proseguii con altri libri, come investita da una necessità nuova, di ritrovarmi ancora, in piacevole affinità e persino inclusa. La lettura non era più una forma di intrattenimento o un compito ma, la seduta di un’attività terapeutica. Scendevo, così, dal cornicione dell’albergo, salita a impressione lo spaventato tipo di turno e correvo alla comprensione scritta. Imparavo che potevo intraprendere una rivoluzione anche dal posto, essere vista senza tanta agitazione, perché sono le idee che muovono il mondo. Ho avuto poche armi in battaglia e devo riconoscere che le parole sono state le più efficaci.
Della rappresentazione cinematografica mi restavano i ritmi, le musiche che partivano dalla radio locale “Ehilà, qui è il vostro numero uno, Bob Cormier, da radio KLAM, ci sono ventotto mega gradi all’ombra, il termometro sale e sul piatto ora sbatto perché tu lo ammiri un quarantacinque giri”, gli sfottò canticchiati dai protagonisti “ho fatto una gran corsa, per venire da te”, “io non chiudo il becco, io ci scommetto, che se con te mi metto ci rimetto”, quelli sputati fuori in maniera inappropriata a riempire gli scomodi e condivisi silenzi e ricomposti sui binari dalle note di “Lollipop” delle Chordettes, i ritmi raccolti a ricomporre l’armonia con “Everyday” di Buddy Holly. Mi restava l’invisibilità, l’incomprensione, la prepotenza, l’ingiustizia, il passaggio, perché mentre il fiume scorre tranquillo, sopra il ponte si alterna la vita che a volte ti impone di correre, la forza, la spensieratezza moderata, la delicata ironia nel profanare le tette dell’intoccabile Minnie, la sensazione di impossibilità a vedersi riabilitati da un’immagine che non ci ha mai rappresentato, anche se troppo a lungo erroneamente definito, l’accettazione e la sconfitta nel non vedersi riconosciuti, la crescita quando, alla fine del giro, torni al punto di partenza e tutto sembra più piccolo e la pace e il conforto della lenta chiusura.
Gordie: tu mi trovi strano? Chris: eccome! Gordie: no davvero, seriamente, sono strano? Chris: sì, ma che vuol dire, siamo tutti un po' strani. Silenzio.
Chris: nessuno mi ha neanche chiesto se li ho rubati io i soldi a scuola, mi hanno solo sospeso per tre giorni. Gordie: sei stato tu? Chris: certo, e tu lo sapevi, anche Teddy lo sapeva. Lo sapevano tutti. Lo sapeva persino Vern. Ma forse mi sono pentito e volevo restituirli. Gordie: davvero volevi restituirli? Chris: forse, può anche darsi e può darsi che li abbia portati alla vecchia miss Simon e che abbia confessato che i soldi erano tutti lì, però mi hanno sospeso lo stesso perché nessuno li ha mai visti e può darsi che la settimana dopo la vecchia miss Simon sia venuta a scuola con una gonna nuova nuova (…) metti che io fossi andato a raccontarlo, proprio io Chris Chambers, il fratello di Caramello Chambers, tu pensi che qualcuno mi avrebbe creduto? Gordie: no (…) Chris: vorrei solo poter andare in un posto dove nessuno mi conosce.
Loro fumano come i grandi e ne ridicolizzano il lessico con uso eccessivo, come se crescere fosse un obiettivo al quale arrivare accelerando ma, adulti ci ricordano: “I never had any friends later on like the ones I had when I was twelve. Jesus, does anyone?” (traduzione: “Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?”); quindi, dove corriamo? Quando i quattro, infine, si confrontano con l’aspetto della morte, infatti, decidono di lasciarla lì, come a riposare, in fondo che fretta c’è di portarla con sé.
Libri e film, come questi, concedono il lusso di sentirsi in compagnia e ricordano la misura dello stare bene, soprattutto a quattordici anni, quando hai bisogno di vedere che da qualche parte c’è una sorta di equilibrio tra comprensione e giustizia.
Vern: Io dico che stiamo proprio bene. Chris: il massimo. Teddy: una bomba.