Lo scopo dell'artista è quello di scomparire... è come se avesse sulla faccia uno specchio così che ognuno quando lo guarda possa dire: sono io.
Questo illuminante pensiero di Christian Boltanski ha chiuso l'articolo apparso sulla rivista il mese scorso, in occasione della presentazione del bel libro di Sonia Marin "Twenty weights... Please" aprendo, allo stesso tempo, la mente a dare vita a nuovi pensieri scaturiti proprio da questo incontro.
Bellissima e profondamente vera questa felice intuizione di Boltanski che richiama alla mente l'importanza del rispecchiamento per il riconoscimento di sé, primo indispensabile passo per la costruzione dell'identità. E lo sguardo della madre come primo specchio affettivo in cui immergersi e trovarsi sarà ripetuto nella vita tutte le volte in cui si verificheranno incontri con persone significative e, in maniera straordinaria, anche con le opere d'arte, quali rivelatori di sé, proprio come suggerisce Boltanski.
Le opere d'arte, quindi, intese anche come sguardo materno che accoglie, contiene, riflette, rimanda, significa l'esistenza in vita di chi in esse si rispecchia.
Le immagini-specchio contenute in "Twenty weights... please " si prestano in maniera assolutamente raffinata a fornire riflessi della propria storia interna se sì è disponibili ad immergersi in acque originarie, costituendo un'occasione di incontro con la propria verità.
In primis ci interroga la verità della sua creatrice.
Chiedo allora subito a Sonia quale sua verità viene raccontata in Twenty weights...please
Chiamarla verità forse identificherebbe il contenuto del mio lavoro con un qualcosa di assoluto e indiscutibile; più che verità questo mio progetto potrei dire che racchiude un sogno, l'idea che fin da piccola avevo del mondo: una stanza immensa dove avere la possibilità di realizzare qualcosa di buono, di grande e meraviglioso. In quel mondo mia madre e mia nonna mi stavano dando quella possibilità, mi regalavano uno degli ingredienti perfetti quando si vuol creare qualcosa, e cioè l'ispirazione, l'immaginazione e il senso di appartenenza ad un codice fatto di tenacia e dedizione.
Quella loro esperienza fatta di sopravvivenza, duro lavoro e capacità di adattamento, si rifletteva in me attraverso un processo alchemico trasformandosi in un modello di vita esemplare di cui percepivo la preziosità e la bellezza intrinseca. E' forse questa la mia Verità, fatta di ammirazione e desiderio, di resilienza e di rinascita, di inventiva al servizio della sopravvivenza che diviene creatività in funzione dell'emozione, di un vissuto di vita vera che trova la sua pace “raccolto” nel dettaglio di un'immagine, dove la semplicità diventa ricchezza di particolari e lo spazio vuoto, privato della persona, raccoglie tutta la forza di un racconto in soggettiva.
Quali parole, pensieri, emozioni danno vita e, allo stesso tempo, sono contenute dalle immagini fotografiche.
Se cercassi di ricordare quali siano stati i miei pensieri quando, nel recarmi a Londra, decisi di iniziare questo ritratto forse la prima parola che mi viene in mente sarebbe Emozione.
Quando chiesi a mia madre di ricordare e di raccontarmi i posti di lavoro, le case dove aveva vissuto spostandosi da una stanza ammobiliata, alla camera della servitù o all'alloggio condiviso con il bagno sul pianerottolo dove con 1 scellino valevano 2 minuti di acqua calda, in modo da avere una traccia da percorrere...ho sentito immediatamente che tutte le immagini che avevano sempre affollato la mia mente durante quei momenti di racconto in cui mia nonna mi avvolgeva con aneddoti misti al fumo della sua sigaretta, stavano finalmente concretizzandosi, sarebbero venute a galla dichiarandosi in tutta la loro nitidezza. Pura Emozione. Sarei stata in grado di “rispecchiare” quei ricordi fedelmente? Sarei riuscita a teletrasportarmi in quella loro vita riuscendo comunque a metterci qualcosa di mio? E quella mia Visione sarebbe poi tornata indietro attraverso la macchina fotografica in un viaggio di andata e ritorno? Sarei stata in grado di riconoscerla come mia?
Quale storia ha a cuore di raccontarci. A sua discrezione e ispirazione, quali foto sceglierebbe per iniziare il suo "C'era una volta..."
Penso che partirei da un'immagine tratta dall'ultimo mio lavoro dedicato a questo progetto: il racconto in bianco e nero che mi ha accompagnata negli ultimi 27 anni ha trovato la sua giusta espressione in questo semplice tacquino edito da Boite Edizioni dove la cura per i dettagli è stata alla base di ogni mia scelta divenendo parte integrante della narrazione stessa.
Questo oggetto prezioso rappresenta però un punto e capo nella mia storia non solo professionalmente, ma soprattutto emotivamente: nell'ultimo anno e mezzo infatti ho trovato un nuovo spazio ideale che mi permettesse di creare una sorta di inciso a questo Romanzo fotografico (come Luisa ha ben definito), arrivando a scrivere, dirigere e realizzare un cortometraggio della durata di cinque minuti e 52 secondi dal titolo “My mum used to call me sister”.
Ho intervistato mia mamma, ho desiderato ricordasse più dettagli possibile, e le sue parole prendevano forma in immagini precise e riccorrenti, momenti semplici di una quotidianità a tratti banale che ritornavano come doni inaspettati regalandole un sorriso confortante. E' quel senso di appartenenza che ho voluto riaffiorasse, un legame con quel momento preciso in cui ci si sente presenti, un omaggio ad un passato che si trasforma e ritorna come attimo da contemplare: My mum used to call me sister mi riporta ora su quelle strade, tra le persone, al fianco di mia nonna e di sua figlia nella Londra silenziosa custodita in Twenty Weights, please confondendo la fine con l'inizio.
Nel mio immaginario, dove l'estetica è funzionale della narrazione, il viaggio è libero e senza riferimenti; corre parallelo su diversi livelli di lettura interscambiabili, ma allo stesso tempo perfettamente allineati, a tratti contenuti gli uni negli altri come in un gioco di matrioske che si svelano e rivelano in loop. Per questo sceglierei un paio di frame tratti dal cortometraggio per iniziare il mio “C'era una volta...”
"My mum used to call me sister". Written and Directed by Sonia Marin Executive Producer: Luca Caizzi Shot and Edited by Vittoria Elena Simone Starring: Giulia Giudici Colorist: Diego La Rosa Sound Engineer: Lorenzo Danniballe Voice Over by Lydzia Azario Music by G. Tartini, Performed by Chiara Parrini Film Developed by Cine Lab Film & Digital (London)