Incombono le minacce, quegli avvertimenti gridati o sussurrati che incutono paura, e cioè atterrimento, per come sarà in futuro il cielo sopra di noi. Incombono i pericoli, quegli scogli affioranti dall’acqua di notte, pronti a sfasciare le fiancate delle nostre barche, troppo vicini per poter essere evitati, troppo appuntiti e duri per poter contenere la gravità del danno. Incombono i presagi che assumono la forma di nuvole “stabili e massicce”, come le aveva definite lo scrittore vicentino Guido Piovene, nere come la pece, sovrastanti le esistenze umane, pronte a liberarsi del peso che portano nel ventre. In questi giorni, da troppi giorni, incombono le notizie della guerra, con il suo clangore di armi, con le lacrime dei padri e delle madri, con i giovani mandati al fronte per conquistare qualche metro di humus dal quale si è persa comunque ogni traccia di umanità. Incombono i sentimenti dentro di noi, di fronte alle traversie della vita che, come ci ricorda ancora una volta Italo Svevo nella Coscienza di Zeno, “non è né bella né brutta ma è originale”.
Incombere è un verbo puro
Il verbo incombere è in origine un verbo puro, non possiede in sé né il colore nero né le deflagrazioni delle armi né gli avvertimenti né le percezioni anticipate di grumi di cellule impazzite nel corpo. Il verbo incombere rimane ozioso, disteso, coricato. Resta intento a osservare la vita degli umani che - forzandone il significato primo - gli attribuiscono tinte fosche e presagi poco piacevoli. Incombere deriva dal latino incŭmbĕre, ‘gettarsi sopra’, ‘star sopra’, derivato dalla radice di cŭbāre, cioè ‘giacere’, ‘stare sdraiato’. Se nella storia di questa parola i parlanti e gli scriventi avessero adottato altre lenti avrebbero potuto non attribuirgli quel gravame di oppressione e di minaccia, avrebbero potuto dire e scrivere che è incombente la gioia, una risata che scaccia i pensieri, un viaggio tra i colori, i profumi e i sapori della piacevolezza, una felicità a forma di cuore. E invece no. Il destino di quella parola non ha voluto per lei le sensazioni della letizia. Nella storia della lingua quel verbo ha assunto quella coloritura, quella tinta, quel sapore e noi, anche se ci impegniamo a indagarne le origini, non possiamo evitarne il significato che oggi ha. Si avvicinino dunque le nubi, sovrastino le minacce, gravino i pericoli, quando incombono su di noi.
Coviamo nell’incombere
Possiamo però tentare ancora, impegnarci a togliere gravami, cercare di restituire all’incombere un significato più neutro e meno minaccioso. Possiamo per esempio carezzare la parola con amorevolezza e cogliere per lei un legame di sangue, una sorellanza, un’affinità sorprendente che le rende meno pesante l’esistenza. Quel cŭbāre latino che ha generato il verbo incombere ha figliato anche il verbo covare, cioè tenere sotto di sé le uova per regalare loro il calore necessario per la nascita dei piccoli. La chioccia cova le sue uova. Noi coviamo le lenzuola quando ce ne rimaniamo a letto a poltrire. Ecco allora che ritorna un raggio di luce a trafiggere il senso complessivo di questo giardino. Il latino cŭbāre appartiene alla stessa famiglia di cŭmba che vuol dire ‘cavità’, ‘avvallamento’ prima di ‘barchetta’ e ‘navicella’ e che può essere accostato al sostantivo kýmbē che in greco antico significava ‘coppa’, ‘tazza’ ma anche ‘barca’. L’incombenza è dunque parente della covata. Il verbo incombere descrive avvicinamento (e quindi impermanenza) ma è prossimo alla permanenza del covare. Alberto Nocentini, linguista e autore del dizionario L’Etimologico, spiega che “i verbi composti di -cŭmbĕre vanno in coppia coi composti di cŭbāre, i primi con valore attivo e momentaneo, i secondi con valore stativo e durativo”. Nell’incombere fa capolino Eraclito, nel covare Parmenide. Noi osserviamo i due verbi con ammirazione, discrezione e riconoscenza, grati a loro per le connessioni che ci consentono di percepire le loro aderenze, le loro distanze e le loro porosità.
Il gomito incombente
Restando focalizzati sui parenti, troviamo un legame anche tra il covare e il gomito. Eh, sì. Perché in latino il gomito si diceva cŭbĭtus, che ha la stessa radice di cŭmba, appunto ‘barchetta’ e ‘cavità’. E noi ci possiamo guardare il braccio, all’altezza del gomito, e osservare il dado della sorte, fatto a forma di cubo, anch’esso affine alla covata e al cŭbĭtus, il nostro gomito. Restiamo così, sgomenti, sorpresi, abbacinati a pensare a quante connessioni ci possano consentire le parole parenti tra loro, i nostri volteggi in alto verso il passato alla ricerca degli avi e in orizzontale, stando al presente, alla ricerca di fratelli e sorelle. Siamo nella vertigine del pensiero, così simile alla vertigine della nostra vita.
Le nostre incombenze quotidiane
Lo scrittore veneziano Carlo Goldoni scrisse: “Ciascuno… / alla propria incombenza / badi di non mancar”. Nella vita quotidiana siamo gravati dalle incombenze. Ognuno di noi svolge incarichi di una certa importanza (o supposta tale), ha dei mandati da gestire, possiede dei compiti di cui farsi carico. Ecco, quei doveri, quelle commissioni, quelle faccende da sbrigare con cura e sollecitudine sono appunto incombenze. Che incombono nella nostra vita. Che si sdraiano sui nostri pensieri. Che covano nelle nostre menti. Che ci aiutano a non soccombere (già, soccombere parente di incombere), schiacciati dalle amenità. Che ci evitano di incubare (già, incubare parente di incombere) i virus del distacco dal mondo. Che ci rendono terreni, umani, legati al qui-e-ora del nostro strano, bizzarro, brevissimo transito terrestre. Le incombenze ci richiamano la concretezza, il fare, l’agire. Concretezza, fare e agire terreni che si posano accanto all’altezza della poesia. Henry Michaux (1899-1984), poeta, scrittore e pittore francese, ci riempie gli occhi di candore e ci regala un “bianco dell’incombere del bianco”.
E appare il «bianco». Bianco assoluto. Bianco al di là di ogni bianchezza. Bianco dell'incombere del bianco. Bianco senza compromessi, attraverso esclusione, attraverso lo sradicamento totale del non bianco. Bianco folle, arrabbiato, che urla con bianchezza. Fanatico, furioso, che sceglie la vittima. Bianco elettrico orribile, implacabile, assassino. Bianco in esplosioni di bianco. Dio del «bianco».
Anche questa è, in definitiva, incombenza del nostro essere.