Il titolo di questo articolo è come un gioco dove si deve trovare l'intruso... ma sarà veramente così?
Forse: ma la mia considerazione oggi parte da una cosa che esiste e una cosa che vorrei esistesse davvero. Vediamo.
I palazzi di Roma, nel centro della città non possono essere paragonati se non a cappelli a cilindro del prestigiatore. Tutti diversi nella loro forma architettonica: ora barocco, ora rinascimentali. Ora tardo Ottocento, ora del ventennio fascista con le loro forme geometriche squadrate così retrò, così particolari...
Il centro di Roma, così ampio e irregolare così come sono i Romani stessi (soprattutto “irregolari”) e di conseguenza, nei palazzi stessi non puoi ritrovare una forma che possa avere una similitudine se non con quella della sorpresa.
Qui in via Bissolati, trovo appunto i palazzi imponenti e pieni di marzialità propri del periodo fascista, ma non per questo privi di bellezza; penso, per esempio al triangolo Via Barberini-Via Veneto-Via Bissolati; chi potrebbe dire che non abbiano appunto fascino e “presenza scenica”? Sarà forse per questo che le targhe esterne e le incisioni sui palazzi le tengano ancora lì? Domanda retorica; ovviamente sì!
Il romanticismo di questo “conservare” sta proprio in questo; “essere avanti” pur essendo datato sul portone 1910 o 1920. Che spettacolo meraviglioso, che lezione artistica!
La forma del centro di Roma non ha paragoni: è storta, oblunga, asimmetrica. Le strade girano a ellisse intorno a palazzi che non ti aspetti e che, oplà (et voilà, non posso dirlo - è francese) alla fine di tanto girare e rigirare ti portano al centro sì, ma di nuovo a un cuore grande e multiforme: il centro di tanta arte e bellezza.
Le sorprese poi non finiscono mai: giri un angolo e trovi una chiesa che non ti aspetti; ora piccola, ora imponente, ora dimessa, oppure costruita in mattoncini come la chiesa cattolica americana in via Boncompagni. Oppure come la chiesa ortodossa in via del Tritone; se la guardate bene la sua forma architettonica non c'entra nulla col mondo circostante. Eppure questa commistione rende più grande la forza del tutto.
Se chiudo gli occhi sento il battere degli scalpelli e il rumore degli operai e degli artisti che nei loro laboratori, facevano tutto quel fracasso al solo scopo di levigare, tagliare scolpire e battere, ma soprattutto in senso lato “battere” sì, ma proprio il rivale artistico della bottega, o del laboratorio affianco. Che periodo fantastico deve essere stato il Rinascimento e il Barocco a Roma...
Come tutti gli abitanti di Roma che si rispettino, tutti noi, chi per un motivo o per l'altro, viviamo il centro; per lavoro, per studio, per attività commerciale o anche solo di passaggio ma il punto è, che solo pochi vi abitano: tutti gli altri cercano di beneficiare di questa atmosfera irripetibile.
Questo mi chiedevo, l'altro giorno… è solo per “mancanza di spazio”? Rido. Poi, osservando meglio, vedo che un flusso migratorio esagerato, di cui sono vittima anch’io, ovvio, ci porta tutti nei nostri quartieri, fuori del centro, in questi palazzi più brutti di un alveare.
Quando è successo tutto questo? Perché non siamo stati in grado di replicare tanta bellezza? È un po' come aver fame e non potersi permettere altro che il profumo del pane, sfrecciando in bicicletta e annusando a pieni polmoni quell'odore di buono, come amava raccontare il mio nonnino durante il periodo della Guerra, concludendo con la frase ad effetto, ma profondamente vera: «E quello ti doveva bastare...».
Nei nostri palazzi dei quartieri standard (così li chiamo io) ho la convinta sensazione di trovarmi sempre nello stesso posto, sempre avendo lo stesso orribile e claustrofobico incubo. Palazzi enormi, dai 7 piani in su, strade che si assomigliano in maniera speculare, come soldati di leva tutti verdi, tutti uguali... Tutto più o meno, chiamiamolo, edilizia proletaria anni ’50/’60, dove la forma peculiare non conta più, dove questo stile orrendo e inconfondibile ormai è assimilabile al peccato originale, cioè origine del male di tutta l’umanità.
Palazzi giganteschi appoggiati vicini vicini uno all’altro. Standard = parola disgustosa anglosassone che definisce il significato di un grigiore e di misura abbondante e per tutti uguale.
E così, quei palazzi rappresentano nella mia mente, nella mia immaginazione (spero di averne ancora per molto, ma non garantisco) quei palazzi rappresentano delle enormi librerie chiuse a chiave. Mio padre aveva una libreria così; con vetrate chiuse da una piccola chiavetta che girava a fatica. Scioccante...
Mi chiedevo l’utilità di una libreria così, ma forse non c'era. Di solito le librerie vantano scaffali e ripiani aperti, in modo che la mano stanca dalla giornata e l’occhio goloso possano subito unirsi e afferrare un libro, ma la libreria a casa di mio padre - seppur bellissima tutta in legno e vetro - mi lasciava perplesso, come mi lasciano perplesso tutti questi “super buildings” di Roma. E la domanda è ancora: perché?
Perché chiudere le nostre storie personali dentro a un orribile super palazzo/ mega building/ libreria chiusa a chiave? Le persone, come i libri, chiusi lì dentro, non sono tutte storie meravigliose? Non hanno tutte sentimenti che devono essere espressi? Non devono esser “letti” da altre persone? Perché abbiamo costruito delle simili prigioni? Dei simili mostri? Da un ufficio scatola, passiamo ad un treno scatola - la metro- e infine passiamo ad una casa scatola, con un tale appiattimento che gli alveari di cui parlavo prima, a paragone, sembrano la residenza estiva di Fontainebleau.
Le persone, con le loro storie, piccole o grandi, dolci o tristi, drammatiche o semplici vanno vissute, percorse con attenzione come un vicolo tortuoso di Roma appunto, soffermandosi sulle nostre finestre, cioè i nostri occhi sinceri. Le nostre storie vanno condivise a piene mani, lette come un libro appassionante, con attenzione, con dedizione e devozione.
Stiamo perdendo il senso? Stiamo andando verso la globalizzazione, lo so, ma la mia domanda è: globalizzazione anche dei sentimenti? «E coi secchi di vernice, coloriamo tutti i muri, strade vicoli e palazzi» dice una famosa canzone italiana... magari potessimo farlo!
In un film ambientato a New York, il libraio Tom Hanks scrive una email a Meg Ryan e per affascinarla, le dice che secondo lui, i grattacieli di New York li vede come tante matite colorate poste in una scatola, con le punte rivolte verso l’alto. Un’immagine fantastica, antitetica ma geniale, visto che anche New York non scherza in quanto a grigiore molte volte, ma che rende appieno il senso di quello che vorrei anch’io a Roma: poter vedere che un giorno i palazzi belli, artistici, si ribellassero e cominciassero a divorare i palazzi fuori del centro, masticandoli come un’enorme gigante che per fame e per sfregio mastica tutto quello che trova intorno a lui. Una specie di Godzilla al contrario che invece della solita distruzione lasciasse spazio a nuove forme da inventare. Così, finalmente, vedremmo la bellezza e l'armonia vincere sul degrado e sullo standard, sul piattume e sul soffocamento delle persone, persone libere come libri, in grado di poter vivere e raccontare.
Mi viene in mente una frase nota di Cartesio che disse: «Sogno o son desto?» per illustrare tutto il suo stupore, come elemento di dubbio tra la realtà vissuta e la realtà immaginaria del sogno. Io, a differenza di lui, sogno città libere da smog, caos inquinamento e bruttura, strade piene di gente serena che aiuta il prossimo e che si saluta con un sorriso e con una pacca sulla spalla. Sogno città piene di parchi e fiori e spazi per far giocare i bambini. Sogno città a misura d'uomo, dove le nostre vite, le nostre storie siano libere di volare come tappeti volanti, che nulla li può fermare...
Quindi «sogno O son desto?». Credo di poter affermare senza dubbio: «Sogno sì, ma sono anche Desto». Sempre.