Roberto Fedriga nasce a Lovere (BG) nel 1984. Dopo gli esordi come cantante in varie rock band locali, si affaccia allo studio del canto jazz in qualità di allievo di Boris Savoldelli. Dal 2008 al 2014 gestisce gli studi Undersound.
Tim Buckley, Tom Waits, Nick Drake e John Martyn lo influenzano profondamente nella tecnica ma soprattutto nella ricerca dell’interpretazione come obiettivo principale dell’espressione musicale.
Nel 2014 debutta con l'omonimo album Roberto Fedriga (con la partecipazione di Nik Mazzucconi e Guido Bombardieri), nel 2018 pubblica Frenologia con la rock band dei Magora, nella primavera del 2023 torna con il suo secondo album La mia malattia, insieme a Boris Savoldelli, Guido Bombardieri e Dennis Rea.
Sono passati nove anni – di cui due in pandemia – dal tuo precedente album. Un periodo di tempo lunghissimo, una lunga gestazione dunque?
Assolutamente sì, necessaria. Le canzoni sono state scritte in questi anni peculiari. È stato un processo creativo che ha richiesto varie fasi di maturazione, non per perfezionismo o altro, ma per rendere la mia urgenza espressiva il più pura e trasparente possibile sia nella scrittura dei testi, della musica e degli arrangiamenti.
In questi nove anni hai anche militato nei Magora, che molti ricordano per l'ottimo rock alternativo del primo e unico album. La mia malattia procede verso orizzonti un po' diversi...
Sì, sono tornato a sonorità più legate alle mie origini musicali. Il cantautorato è sempre stato presente, anche nel progetto Magora chiaramente, ma qui è decisamente più centrale.
A proposito del titolo, La mia malattia: una dichiarazione di disagio, di difficoltà, ma anche una richiesta di aiuto?
Probabilmente entrambe. È innegabile che questi anni siano stati per tutti molto complessi. Tutti noi abbiamo avuto tempo però per guardarci forse più in profondità. A volte perdendosi nell’abisso.
Sei sempre attento alle collaborazioni, forse stavolta più che mai nonostante la dimensione solitaria. Partiamo da Boris Savoldelli, uno dei più grandi performer vocali al mondo. La mia malattia è una sua coproduzione.
Nonostante in questo progetto io abbia deciso di suonare buona parte degli strumenti, ho voluto con me dei musicisti straordinari che hanno contribuito in modo, unico e personale a rendere questo album molto intimo (Guido Bombardieri, Elena Troiano, Federica Tirelli, Dennis Rea). Al mio fianco nell’orchestrare il tutto è sempre stato presente Boris Savoldelli, che ha da subito creduto in questo progetto, tanto da esserne coproduttore. Il suo contributo è stato fondamentale da tutti i punti di vista, ma in particolare è stata per me vitale la sua fraterna Amicizia.
I più attenti ricorderanno già insieme a te Guido Bombardieri, uno dei protagonisti del jazz contemporaneo italiano. Qual è stato il suo ruolo?
A Guido va lasciata assoluta libertà espressiva e creativa. Collaboriamo ormai da molti anni e il suo enorme talento gli ha sempre consentito di riuscire a interpretare i miei brani come se fossero scritti da lui. Senza parole ha sempre colto ogni mia intenzione in un processo quasi magico.
Dall'Italia all'estero, con la presenza di un certo Dennis Rea, prolifico e ammirato compositore prog e jazz-rock. Come mai la sua partecipazione?
Questa è stata per me una vera e propria fortuna. Ho conosciuto Dennis a Jajce in Bosnia durante il festival Jazz organizzato dall’etichetta americana Moonjune dove lui suonava. Ho avuto modo di parlare a lungo con lui. Essendo Dennis di Seattle e conoscendone profondamente la scena musicale, era un’occasione imperdibile per conoscere in modo diretto un contesto artistico che ha innegabilmente contribuito alla mia crescita. Ho regalato a Dennis il mio primo album. Non solo l’ha ascoltato ma gli è pure piaciuto e ha quindi accettato di suonare come ospite in un brano del mio nuovo progetto. Praticamente un sogno.
Nonostante la collaborazione resta ferma la tua scelta di suonare da solo. Che sensazione si ha quando si procede solitari con tutti gli strumenti?
Ho sentito l’esigenza di chiudermi in fase di scrittura dentro di me. Solo con i miei strumenti e la mia voce. Volevo essere totalmente descritto dal mio progetto. Volevo realizzare qualcosa di profondamente mio, ma che allo stesso tempo avesse la forza di potersi legare al vissuto di qualsiasi ascoltatore.
Anche l'occhio vuole la sua parte e La mia malattia si presenta con la straordinaria fotografia di Alessandro Albert. È nata in funzione dei brani?
No, le foto di Alessandro Albert esistevano già e per me è stato un grande onore avere da parte sua l’autorizzazione a legarle al mio progetto. Trovo che la loro potenza evocativa si sposi benissimo alla mia musica e che il loro potere semiotico sia aderente al progetto.
In questi intensi nove anni è cambiata la musica, il suo processo produttivo ma anche il modo di fruirne. È cambiato anche il tuo modo di essere un uomo di musica?
No. È rimasto lo stesso e forse sarà sempre così. Certo, non si suona più molto come una volta. Ma la musica per me è qualcosa di profondo ed intimo. Come un ricordo.