Invoco Protogono dalla duplice natura grande, vagante nell’aria, nato dall’uovo
(Inni Orfici, Profumo di Protogono)
E nel grembo immenso dell’Erebo la Notte dalle ali nere partorì da sola un uovo dal quale nacque Eros impetuoso come turbine di vento
(Aristofane, Gli Uccelli)
Botticelli ci regala due capolavori complementari, quasi gemelli: la Primavera e la Nascita di Venere. Due capolavori che sintetizzano in modo paradigmatico il Quattrocento umanista quale sintesi cristiano-neoplatonica-ermetica. Non sono quindi opere realistiche ma pienamente e sommamente simboliche e quindi in senso simbolico vanno lette e rilette. La prima, la Primavera, la decrittai in modo innovativo nel 2013 ribattezzandola: l’Annunciazione cosmica del Botticelli.
Vidi cioè la Donna dell’opera quale sintesi tra la Vergine-Madre Maria colta con forme e stilemi greci, pre-cristiani (“alla moda culturale dell’epoca”, potremmo dire) e il tema pagano della Sapienza del Parnaso. Nove figure, come le Muse e i cori angelici celesti, articolate in una sequenza da leggere da destra verso sinistra: le 4 virtù cardinali e le tre virtù teologali (le Grazie) con al centro l’allegoria della virtù della giustizia: la Vergine-Madre che partorisce il Giusto: Cristo in vesti di Hermes musagete.
Il Cristo ermetico quale “frutto” del Giardino terreno-celeste dove regna Adrastea-Maria e quale figura che compendia e riassume sia le virtù umane che quelle celesti in una processione ierogamica ricca anche di sensi pitagorici-orfici e neoplatonici. L’incipit della mia rilettura creativa-adesiva stava nel ribaltamento della prima figura a destra: non Zefiro (letture descrittiva, banale, autoreferenziale) ma il superiore Borea, per l’impetuosità e la freddezza. Gli antichi greci infatti ritenevano il settentrionale Borea il vento migliore, rapitore, fecondatore, vitalizzante. Lo status primaverile riguarda il tema edenico del Paradiso Terrestre, al cui centro domina la Vergine-Madre (infatti il suo capo è posto al centro dell’arco vegetale centrale) quale segno di concordia oppositorum e mediazione universale fra l’alto e il basso, fra l’eterno e il tempo.
Un’opera quindi sommamente nuziale e trionfale: una Vergine fecondata celestialmente dall’Amore divino, qui raccontato in forma mitizzante con l’immagine di Eros fanciullo bendato (Amore come Mistero) che adombra la Vergine e lancia la freccia al centro della pericoresi trinitaria delle Grazie teologali. C’è modo più elegante e aggraziato per raccontare in immagini l’unità della sostanza divina e la trinità delle sue persone? La rosa senza spine e recisa (peonia) indica la recisione del male al momento del concepimento di Maria e nel contempo ricorda, nel Mito, l’evirazione di Urano, cioè l’occultamento del cielo. “Coelum” significa infatti: celare, nascondere.
Il sorgere dell’Amore in terra vela e ri-vela i Cieli. Occorre assumere una simile logica simbolica di sintesi fra tradizione orfico-pitagorica e dottrina cristiana per decrittare il capolavoro gemello e complementare: la nascita di Venere, cioè la nascita miracolosa di Afrodite vergine, cioè della Vergine-Sapienza, sintesi della Vergine Maria e dell’Idea platonica.
Quest’opera quindi rappresenta il momento iniziale dell’opera cosmogenetica e soteriologica divina a cui và vista seguire l’opera della Primavera mistica dove la Vergine diventa Madre, nuova Eva. La genesi di Afrodite quindi compendia tre racconti sull’origine del cosmo: orfico, biblico e vangelico-mariano. Iniziamo dall’ultimo, il più audace.
Qui Amore è Vergine e la nudità và coperta subito perché gnosticamente e misticamente la verità và accolta tramite simboli, velami, maschere come già il Vangelo di Filippo insegnava e come ripetono tutti i grandi umanisti: dal Pico della Mirandola dell’Eptaplus, umanista influenzato da Origine e Filone, a risalire fino a Sant’Agostino passando per Niccolò Cusano e Marsilio Ficino.
La donna simbolica che reca il velo fiorito con cui velare la Donna celeste, nuda in quanto perfettamente uscita dalla mente di Dio quale palingenesi di salvezza, è la stessa donna della Primavera botticelliana colta mentre sparge fiori. Ne reca il medesimo collare fronzuto. Anche questa volta appare fiorita e recante fiori e ricorda simbolicamente la Matelda del canto XVIII del Purgatorio di Dante, che non a caso l’assimila a Proserpina e a Venere stessa.
Una donna quindi che riassume quella “foresta divina spessa e viva” che scorgiamo sul lato destro del dipinto e che troneggia quale protagonista assoluta nella Primavera. Questo velo ci appare ricco anche di ricapitolazioni mitizzanti e ninfiche: il nodo di Iside sul culmine e il suo gonfiarsi al vento come il velo di Europa o di Ino nell’arte pre-cristiana. La donna reca gli stessi fiori, peonie, che cadono, recisi dal cielo sopra Venere. Un velo-vestito edenico che al centro mostra un golfo, un’insenatura che riecheggia il tema della conchiglia aperta e che probabilmente allude alla forma della ghiandola pineale.
La conchiglia e la perla (detta in latino: margherita, come i fiori bianchi del velo) è un tema iconografico mariano come allude la perla sospesa sopra la Vergine nella Natività di Piero della Francesca alla Pinacoteca di Brera. Come la conchiglia crea da sola la sua perla così la sapienza divina crea Maria perfettamente: senza peccato, senza difetto né macchia. Le peonie sono fiori simbolicamente associati all’epoca alla Vergine Maria nei suoi aspetti pasquali-sacrificali e che riecheggiano magnificamente anche nel Mito quali immagini del sangue celeste di Urano da cui sorge Afrodite dalle schiume marine. Non sono infatti fiori sparsi dalle figure che soffiano un vento vivace ma scendono verticalmente dall’alto quale segno di origine divina della Donna che unisce acque ad aria e cieli.
La posizione della conchiglia vicino alla terra e retta da acque gorgoglianti, come animate dal vento che soffia (come nella vangelica piscina di Siloe: Gv. 9,7) oltre al mantello pieno di fiori indicano la perfezione della Donna che trabocca di ogni virtù e grazia e nascendo sulla terra ma da un'origine divina, prodigiosa (allusione alla nascita senza peccato di Maria) viene colta nel momento in cui stà per assorbire anche l’elemento terra, carnale. Venere nuda e casta ma subito coperta di fiori è la vergine Maria nel suo divino concepimento, differente da ogni altra generazione umana, creaturale, tanto da dover scomodare il mito della nascita di Afrodite per tentare di spiegare un mistero comunque insondabile. Il velo pieno di fiori e gonfio di vento divino indica una natura umana edenica, perfetta, senza macchia, simile a quella del Giardino paradisiaco, presente in entrambe le opere. La nudità mostra la “Vergine in Dio”, celeste, e il suo vestito che viene dal Giardino-Paradiso terrestre che ci mostra che questa nascita è una nuova creazione, una palingenesi.
Quest’opera quindi esprime l’essenza di Maria quale “paradiso incarnazionale” e nuova Regina del Paradiso terrestre, nuova Eva, quale la tradizione cattolica ha sempre celebrato fino al culmine di San Luigi di Montfort che nel suo magnifico “Trattato della vera devozione a Maria” ricapitola duemila anni di spiritualità mariana e descrive la Vergine-Madre quale “Paradiso di Dio” sia in terra che in cielo, suo capolavoro. Dal punto di vista ermetico si tratta della Sapienza, del trionfo del Mercurio filosofico quale yle universale, materia umida che è madre dei quattro elementi. Il principio igneo qui è visualizzato dalle chiome rosseggianti e dal tema dei fiori celesti di colore rosaceo. Maria quale “Terra edenica” cioè “materia prima” dell’opera ermetica.
La cosmogonia orfica spiega la figura che soffia il vento, altrimenti assolutamente assurda, enigmatica, eccentrica e non utile al racconto. Si tratta di un uomo e di una donna così avvinghiati fra di loro da sembrare un solo corpo con due volti: uno maschile, che soffia più impetuoso, e uno femminile che soffia in modo delicato. Si tratta proprio di questo: l’Androgino platonico (Simposio) e, orficamente, siamo di fronte a Phanes Protogono, figlio della Notte. Qui il genio degli umanisti committenti dell’opera raggiunge il culmine a livello di sintesi quale complessità nella semplicità. La figura duplice compendia in una perfetta equazione le varie versioni del racconto cosmogonico orfico-pelasgico: Borea : Ofione = Notte : Eurinome. L’uomo infatti soffia impetuoso come la prima figura a destra nella Primavera: è il vento fecondatore Borea che con Notte genera l’Uovo delle origini.
E infatti la figura androgina reca le ali nere, scure ma ricche pure di riflessi aurei, perché dall’Uovo nascerà Phanes-Eros dalle ali d’oro. La donna, Eurinome è avvinta serpentinamente all’aspetto maschile, a ricordo dell’immagine del serpente Ofione che feconda la prima dea e poi si avvolge attorno all’uovo cosmico. Ecco quindi il Rebis di Paracelso e Basilio Valentino, l’Adam Kadmon, l’Uomo neoplatonico nella sua interezza e pienezza originaria che opera qui gnosticamente-demiurgicamente soffiando un vento che appare presente anche nel racconto biblico quale Spirito che aleggia sulle prime acque (Gen.1,2) e quale Spirito che plasma quell’umanità che è “maschio e femmina” (Gen. 1,27).