Non si può dire che nel panorama attuale manchino dei giovani chitarristi di qualità: Daniele Cordisco, classe 1988, molisano e figlio d'arte, non solo è uno di questi, ma dopo alcune collaborazioni di prestigio (Greg Hutchinson, Jerry Weldon, Benny Benack, Peter Bernstein fra gli altri), è anche riuscito a coronare un sogno che non è appannaggio di tutti visto che in Bitter Head, appena pubblicato da Nuccia Records, è alla guida di un quartetto in cui al contrabbasso figura Sua Maestà Ron Carter, ovvero l'eleganza per antonomasia legata al Jazz, insieme a Jeb Patton (piano) e Luca Santaniello (batteria), molto amico di Cordisco, cui va il merito ulteriore di aver propiziato l'intera operazione.
Inutile dire quanta emozione, paura e gioia ho provato prima, durante e dopo la registrazione di questo album. Un vestito che ho dovuto cucire addosso a un grande Maestro quale è Ron Carter. Il repertorio che ho scelto è evidentemente in linea con la sua storia musicale, di cui tutti noi conosciamo e apprezziamo l'insuperabile parabola artistica.
(Daniele Cordisco)
Come ti sei trovato, insomma, dal suonare al calduccio di casa tua ai grattacieli di Manhattan, con una figura leggendaria come quella di Ron?
Devo ringraziare Luca Santaniello, un amico che conosco da sempre, intanto perché è cresciuto come me a Campobasso e poi perché è stato allievo di mio padre Nicola, anch'egli chitarrista Jazz. Ben presto però Luca ha deciso di andare a vivere a New York, abbandonando definitivamente il Molise.
Ammetto che, questo salto oltreoceano ho pensato di farlo anch’io, almeno un milione di volte. Ho anche fatto un paio di tentativi, ma con scarsi risultati dovuti al mio poco spirito di adattamento ad hamburger e grattacieli. Così ho deciso di passare almeno un mese all’anno nella “Grande Mela” per prendere lezioni, fare jam session, conoscere musicisti e mettermi in gioco in una realtà molto più stimolante artisticamente del nostro vecchio “stivale”.
Con Luca avevamo detto molte volte che avremmo dovuto fare un disco ma non avevamo le idee chiare, sapevamo che sarebbe stato un disco con radici Hard Bop e pensavamo solo a un ottimo "testimonial" (per usare un termine televisivo) che ci aiutasse a presentarci a un pubblico internazionale. Quando sento che vuole coinvolgere Ron Carter (suo docente quando studiava alla Juilliard), scoppio in una risata fragorosa: figuriamoci se uno come lui avrebbe accettato un invito così estemporaneo, quasi bizzarro. Dopo 24 ore, invece, ricevo una mail di Ron Carter dove il Maestro affermava: "I'm interested in this project, when are you coming to New York?".
Congratulazioni allora, ma cosa era successo di preciso per farlo accettare?
Ovviamente è stato Luca con agio, ma anche un pizzico di sfacciataggine, a girargli i miei video e il nostro idolo aveva accettato di prendere parte a questo folle progetto. È stato veramente qualcosa di incredibile: l’entusiasmo con cui Ron ha partecipato attivamente ad ogni fase di questo progetto, che non esito a definire coraggioso, ha reso quest’esperienza, già unica nel suo genere, ancora più sorprendente.
Ron Carter è di fatto una leggenda, ben consapevole di aver fatto la storia del Jazz, ma è stato anche pronto a suonare miei brani originali, ad accogliere le mie proposte di arrangiamento e a darmi suggerimenti, preoccupandosi che il risultato fosse quello auspicato da me. Ron ha dedicato davvero tanto a questo progetto al punto da accettare di cofirmare l’album e non figurare come semplice featuring.
E per quanto attiene la scelta del repertorio invece?
Mi è sembrata una grande forma di rispetto e di riconoscenza proporgli la registrazione di brani nelle sue corde, a fianco a pezzi originali che hanno sicuramente acquisito, grazie anche al suo apporto, una consistenza affascinante. Per formazione e naturale inclinazione sono saldamente ancorato al linguaggio “ortodosso” (lo definirei una rivisitazione contemporanea dell'era Hard Bop), ma allo stesso tempo ho elaborato una rosa di composizioni originali di forte impatto e con melodie sempre ricercate.
Indubbiamente le doti tecnico-strumentali di Daniele sono avallate dalla capacità di ascolto del contrabbassista pivotale e sopraffino (lo si ascolti attentamente in Tangerine, Autumn In New York e Come Rain Or Come Shine), mentre Canadian Sunset trae linfa dal riff di Vernel Fournier in Poinciana, il brano calligrafo di Ahmad Jamal, mentre fra le composizioni originali spicca lo smalto nel brano che dà il titolo all'album e “F. R. C.”, un uptempo dedicato per l'appunto a Mr. Carter.
Posso immaginare il tuo legittimo orgoglio, anche se è lecito affermare che i grandi più sono tali e maggiormente restano umili, andiamo indietro nel tempo: quali sono state le tue principali influenze e ispirazioni?
Grazie a mio padre, sono cresciuto a pane e Jazz. Anche se da piccolo assorbivo tutto quello che mi si proponeva, verso i tredici anni iniziai a scegliere consapevolmente cosa ascoltare. Ricordo che avevamo terminato i lavori di ristrutturazione a casa e papà aveva trovato una nuova sistemazione per il suo vecchio impianto di alta fedeltà. Fu così che mi insegnò a usare il giradischi e da lì iniziai a passare lunghi pomeriggi chiuso in cameretta alla scoperta di dischi bellissimi.
Non era esattamente un momento florido per il vinile, ma il mercato dell'usato andava abbastanza bene, così iniziai a creare la mia discoteca. I miei artisti preferiti erano Sonny Rollins, Wes Montgomery, Barney Kessel, Joe Pass, George Benson, John Coltrane, Miles Davis, Oscar Peterson e Frank Sinatra, e forse sono ancora oggi i musicisti che mi ispirano maggiormente.
Cosa rappresenta per te la parola Jazz e cosa ha arrecato alla tua vita?
Inutile dire che per me il Jazz è uno stile di vita, trasmesso e appreso negli anni da quando ne ho memoria. In quanto figlio d’arte, forse prima di tanti altri, ho vissuto l’ambiente del jazz, aggregandomi a mio padre quando suonava a concerti o li andava a sentire. Tutto questo in un momento della vita in cui stavo crescendo e si iniziavano a definire le mie priorità: non era certamente la carriera scolastica quella che volevo perseguire ma una di altra natura, e quindi il tempo dedicato allo studio era quello dello strumento. A quell’età mi sono anche sentito un po’ diverso dai miei coetanei, che ascoltavano altri generi o che semplicemente volevano frequentare le discoteche.
Sicuramente questa musica negli anni mi ha fatto incontrare molte persone diverse in giro per il mondo, permettendomi di comunicare, attraverso un linguaggio comune, anche con chi non parlava la mia stessa lingua. Dedicarmi al jazz ha richiesto però dei sacrifici, come stare lontano da casa e dalle persone care per diverso tempo o non avere sempre una sicurezza economica; ma ha anche permesso di realizzarmi come musicista e adesso come docente di conservatorio nella mia città di origine.
I confini fra i generi si fanno vaghi: come continua a riconoscersi oggi un chitarrista che suona Jazz?
Il jazz è una musica in continua evoluzione, quindi definire cosa sia jazz e cosa non lo sia rischia sempre di alimentare un dibattito sterile. Allo stesso tempo, però, credo sia utile identificare i tratti distintivi che definiscono un musicista jazz a sei corde. Se parliamo di improvvisazione, la conoscenza del linguaggio e il legame indissolubile con gli standard è fondamentale e non limita affatto la possibilità di essere originali o creativi.
Basta pensare a grandi esempi come John Scofield e Pat Metheny, o per altri strumenti, Herbie Hancock, Chick Corea, Brad Meldhau e molti altri. Tutti questi sono nostri idoli e li riconosciamo come tali perché sono stati in grado di sviluppare una propria personalità pur dimostrando, soprattutto nei primi anni della loro carriera, una notevolissima conoscenza della tradizione. Ad esempio cito Presenting Wayne Shorter, del grandioso sassofonista e compositore appena scomparso. In quest'album del 1959 possiamo notare proprio questo, ovvero quanto Shorter sia ancorato alle radici del linguaggio bebop.
Fammi un esempio di qualcosa che hai imparato su un palco o in studio che nessun libro di teoria Jazz avrebbe potuto mai insegnarti...
Quando vivi questo mestiere e sali su un palco, quello che sperimenti costantemente sono i tuoi limiti e i tuoi punti di forza. Suonare con chi ha più o meno esperienza di te ti dà l’opportunità di imparare tante cose, tra le quali, anche la definizione dei ruoli dei vari componenti della band.
Per quanto riguarda il live ho imparato, guardando i leader, come organizzare lo spettacolo tenendo conto che siamo degli intrattenitori che devono comunicare qualcosa al pubblico che si ha davanti. Quando registri un disco tuo ma con un altro grande artista, come è stato per me Bitter Head, devi far incontrare due storie diverse di vita e di musica: è il dover immaginare quello che sarà questo incontro ciò che nessun manuale può spiegarti.
Nonostante solitamente nel jazz si dia libertà nell’impostazione dei brani ai musicisti, una cosa che ho imparato in questo disco è che, programmare ogni momento della registrazione, ipotizzando ancor prima di entrare in studio anche aspetti come la durata dei singoli brani, può non sembrare molto democratico ma garantisce una rapida sessione di registrazione e ci permette di avere le idee chiare. Questo mi ha permesso di incidere un album in sole 4 ore.
A chi vanno i tuoi ringraziamenti, oltre Luca, e cosa ti aspetta nei prossimi mesi?
Non ringrazierò mai abbastanza Giuseppe Vadalà e Nuccia per aver creduto ancora una volta in me e aver contribuito non solo alla co-produzione di quest'album ma a tutte le fasi di scrittura, arrangiamento e, non di minima importanza, la fase cruciale del missaggio e masterizzazione con il prezioso contributo di Roy Bortoluzzi e Federica Ugo.
Sebbene riconosca la fortuna e il privilegio che ho avuto nel fare questo incontro, la vita e gli impegni quotidiani rimangono gli stessi. Da poco ho presentato l’album nello storico Jazz Club Londinese “606” in una delle date del tour all'estero, ma spero di riuscire ben presto a presentare questo mio lavoro discografico anche in America o in Italia, al fianco di Ron Carter.