Veloci. Non facciamo in tempo ad abituarci all’evoluzione solcata pochi istanti fa e già siamo sollecitati al nuovo cambiamento, alla nuova virata, alla nuova strambata. Per accogliere tutto il vento possibile nel rigonfiamento delle nostre vele. Per raggiungere prima (già prima, chissà poi perché) il porto a cui far attraccare la navicella del nostro ingegno. Per esplorare nuovi mari e nuovi paesaggi, sempre nuovi mari, sempre nuovi paesaggi. Veloci. Spesso senza pause di ristoro, spesso con il fiatone, come se dovessimo correre una maratona all’andatura prediletta dai centometristi e quindi incapaci di trarre giovamento dal viaggio, inadeguati a osservare le radici che incontriamo nel terreno polveroso dei viottoli che stiamo percorrendo, incapaci di renderci conto dell’acciottolato che stiamo calpestando, poco abituati ad ammirare i salici e i cipressi che ci sono piantati attorno (e nel cuore).
Veloci. Volteggiando nei cieli delle nostre giornate, fluttuanti nell’etere, talvolta spinti verso l’alto da correnti ascensionali, talvolta lasciati piombare verso il basso senza che vi siano reti di salvataggio pronte ad accoglierci, lanciati in vorticosi saliscendi continui, essenza della nostra essenza, aria del nostro agire, anima di tutto ciò che sentiamo. Veloci dunque quando navighiamo sul mare, quando procediamo a piedi su un sentiero, quando apriamo le ali per volare fin lì.
Velocità è vita
Change is life, il cambiamento è vita, ripetiamo spesso, consapevoli che siamo crisalidi perpetue, in costante, infinita, rapida evoluzione dallo stadio di bruco a quello di farfalla. Ma l’essere vivi è connesso alla velocità. O meglio la velocità è connessa alla vita. Cambiamo per poterci sentire vivi e cambiamo rapidamente per aggiungere vitalità al nostro transito terrestre. L’aggettivo veloce ha un antenato illustre nel latino vēlox -ōcis che voleva dire proprio ‘veloce’, ‘rapido’, ‘pronto’. A sua volta è connesso alla stessa radice del verbo vĕgēre che significava ‘esser vivo’.
“Sono vivo e vegeto” è un modo di dire, un’espressione che unisce due lemmi dal significato affine. È vegeto chi è in ottime condizioni fisiche, chi si sente bene, chi appare pronto a nuove sfide, a nuovi programmi, a nuovi affinché. Una buona playlist di parole connesse alla velocità derivano da quella medesima radice. Il latino vĕgēre non è che una variante di vigēre che mantiene la vocale radicale originaria e quindi appartiene alla stessa famiglia di vĭgĭl ‘sveglio’, ‘vigile’ e vigor, che in latino voleva dire ‘vigore’. Ecco quindi che nella velocità troviamo la veglia e la vigilanza, il vigile e la persona vigorosa ma anche il vegetale, chi si limita a vegetare e sia i vegetariani che i vegani.
Tutti, a loro modo, imparentati, con qualche elemento di somiglianza, con qualche tratto somatico in comune, con un desiderio interiore di prendere velocità. Diceva il filosofo greco Talete: “La cosa più veloce è l’intelletto, perché tutto attraversa”. Con il nostro veloce intelletto cerchiamo ogni giorno di attraversare il nostro tempo, che è tempio e che è voce del verbo tagliare.
L’aggettivo veloce compare sedici volte nella Commedia dantesca. Una volta nell’Inferno, cinque nel Purgatorio e dieci nel Paradiso. La cantica della luce è anche la cantica della velocità della luce, quella attraversata da Dante e Beatrice in un battito di ciglia. Lì, nella terza cantica, ciò che “si muove con grande prestezza” è collegato con la salita verso l’Empireo, con il moto impresso da Dio all’universo, con l’impulso delle creature a unirsi al creatore e con il gioioso ritmo di danza con il quale i beati rivelano la loro letizia. Veloci, dunque, noi, per cercare, in qualche forma sghemba, un paradiso sulla terra.
Accelerare per muoverci
Procediamo sempre più velocemente. Sempre di più. E quindi acceleriamo. I contesti nei quali siamo immersi ogni giorno non solo sono caratterizzati dalla velocità ma dalla variazione della velocità nel tempo. E quindi dall’accelerazione. «Qui, vedi, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra parte devi correre almeno il doppio!»
A parlare ad Alice è la Regina Rossa. La raccomandazione viene formulata nel secondo capitolo di Alice attraverso lo specchio, il romanzo scritto da Lewis Carroll, seguito ad Alice nel paese delle meraviglie. Per rimanere in un medesimo posto, dice la Regina Rossa, non basta rimanere fermi, bisogna correre. Se però ci si vuole spostare bisogna correre il doppio, accelerare, procedere al doppio della velocità che era servita per restare immobili. È così in molti ambiti, è così per molte e molti di noi.
Il verbo accelerare è ovviamente parente dell’aggettivo celere, un prestito dal latino cĕler, -ĕris che voleva dire ‘rapido’, ‘veloce’. Cĕler a sua volta si confronta con il verbo greco kéllo, che significava ‘muovo’, ‘spingo’ e che alla forma intransitiva prendeva il significato di ‘corro’, ‘arrivo’, ‘approdo’. Sempre nella lingua degli antichi greci, kélēs, -ētos era il ‘cavallo da corsa’, quel cavallo che poteva essere sellato e che a briglie sciolte arrivava a destinazione prima di tutti gli altri. Ecco, quando acceleriamo, siamo così, come cavalli al galoppo, talvolta cavalli imbizzarriti, lanciati verso una meta.
Andiamo, alla svelta!
Gli studiosi del vero, ovvero coloro che si occupano di etimologia che è per l’appunto la scienza che indaga i meandri della verità, sull’aggettivo svelto non sono concordi. C’è chi sostiene che la parola che indica una persona rapida nei movimenti sia una forma breve di svegliato, participio passato di svegliare. Sono scivolato fuori dal letto dopo che è suonata la sveglia e sono quindi svelto, svegliato, vigile, pronto a correre per la giornata. Altri studiosi invece lo riconnettono al verbo svellere, che vuol dire ‘sradicare’, ‘estirpare’. Quando procediamo svelti lungo un sentiero, ci sradichiamo dal nostro passato, perdiamo il ricordo di ciò che è stato.
Una connessione tra la rapidità e la dimenticanza la propone lo scrittore Milan Kundera nel libro La lentezza. In quel testo leggiamo: “C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo”. Svelti, per dimenticare. Lenti, per consentire alla memoria di attivarsi, alla mente di rammentare e al cuore di ricordare.
Pronti, partenza, via: con rapidità
Dice Confucio: “Il vero signore è lento nel parlare e rapido nell’agire”. Già rapido. Quindi veloce e svelto. Ma soprattutto in grado di afferrare l’attimo, di ghermire la preda, di agguantare il momento per spostare sé stesso un po’ più in là. L’aggettivo rapido risale al Trecento e ha come papà il latino rapĭdus, ‘che trascina via’, ‘impetuoso’, derivato del verbo rapĕre che per gli antichi romani voleva dire ‘ghermire’, ‘trascinare’, ‘portar via’. Da quel verbo antico è derivato il raptus, quella manifestazione esplosiva, imprevista e incontrollata, che in psichiatria è sintomo di disagio e che nell’espressione più poetica indica un momento di ispirazione intensa e improvvisa. Sempre da quel verbo derivano inoltre la rapina, il rapimento e il rapinatore: la connessione con il portare via è evidente. Quando siamo rapidi veniamo rapinati del nostro tempo lento.
Con speditezza, procediamo
Procediamo spediti. Agili, veloci. Ma spediti in primo luogo non significa veloci: vuol dire liberi da impacci, sciolti da legami, affrancati da incombenze che rallentano il pensiero e l’azione. È spedito chi ha adempiuto il proprio compito, ha svolto quello che c’era da svolgere e ora, finalmente assolti gli impegni, può procedere con maggiore libertà. Spedito è chi può muovere le gambe senza impedimenti.
Nel cielo di Marte, in quella parte del Paradiso dove dimorano gli spiriti combattenti, Dante dialoga con il nonno di suo nonno, il Cacciaguida che loda i tempi del passato, e dopo che il suo antenato gli ha parlato, il poeta chiosa così: “Poi che, tacendo, si mostrò spedita / l’anima santa di metter la trama / in quella tela ch’io le porsi ordita” (XVII, 100-102). L’anima santa dell’avo si tace e si mostra spedita, cioè appunto liberata dagli impegni gravosi di aggiungere la trama a una tela nella quale si trovava solo l’ordito. Il contrario dell’essere spediti è l’essere impediti, cioè impacciati, bloccati, costretti a stare ‘con i ceppi ai piedi’. Antenato del verbo spedire, di cui spedito è il participio, è il verbo latino expedire ‘liberare dalle pastoie’ e figurativamente ‘trarre d’impaccio’, ‘agevolare’, ‘allestire’, derivato a sua volta di pes, pedis, che significa ‘piede’, con il prefisso ex- ‘via da’.
Spedita è quella persona che si è liberata dai lacci ai piedi. Quando spedisci un pacco, lo liberi dai legami che lo tengono a te. Quando spedisci una lettera, sciogli i lacci che la avviluppano ai tuoi piedi e la lasci libera di volare verso il tuo destinatario.
Con Speedy Gonzales
In inglese, uno degli aggettivi usati per dire veloce è speedy . Nonostante l’assonanza, non ha nulla a che vedere con spedito e speditezza. L'inglese antico sped significava ‘successo’, ‘prosperità’, ‘ricchezza’, ‘opportunità’, ‘avanzamento’, dal proto-germanico spodiz. Da quella radice antica sono derivato l'antico sassone spod ‘successo’, l'olandese spod ‘fretta’, ‘velocità’, l’antico alto tedesco spuot ‘successo’ e spuoten ‘affrettarsi’. Addentrandoci ancora più in profondità nella storia della lingua, secondo alcuni studioso la radice antichissima di tutte queste parole sarebbe l’indoeuropeo spo-ti, che si trova nell’ittita išpai ‘saziarsi’, nel sanscrito sphira ‘grasso’ e sphayate ‘aumenta’, nel latino spes ‘speranza’ e sperare ‘sperare, nel russo spet ‘maturare’, nel lituano spėju, spėti ‘avere tempo libero’. Secondo il dizionario Etymonline, per speedy il significato di ‘rapidità di movimento’ è emerso nel tardo antico inglese. Il significato di ‘velocità di movimento o progresso’ (veloce o lento) risale al 1200. Speedy con suono simile a spedito, dunque, ma con due origini completamente diverse.
Pronto all’azione, dinamico
In alcuni giorni, ci svegliamo con l’energia di un bradipo e vorremmo che il materasso sorreggesse il nostro corpo per ore e ore. In altri giorni la baldanza è sinonimo di risveglio e appena gli occhi si aprono sentiamo il nostro corpo pervaso da fremiti di energia. Ecco, in quei giorni il dinamismo è la nostra parola d’ordine, la nostra carta segreta, il nostro modo di essere e di apparire al prossimo. Le persone dinamiche hanno in sé un’energia impetuosa che travolge tutto e tutti. La parola dinamico è un prestito moderno dal greco antico: dynamikós voleva dire ‘potente’, derivato di dýnamis ‘forza’, ‘potenza’, ‘capacità di realizzare’, ‘capacità di mettere a terra’ e di conseguenza anche ‘potere’ e ‘possibilità’ (queste ultime sono parole sorelle). Le persone dinamiche in definitiva sono coloro che fanno accadere le cose, che trasformano le potenzialità in atto, che traducono i pensieri in azione.
Da quella dýnamis si sono generate anche la dinamo che utilizziamo per illuminare la strada quando andiamo in bicicletta e la dinamite, l’esplosivo a base di nitroglicerina. Quest’ultimo lemma è stato coniato nel 1867 dallo svedese Alfred Nobel. Nell’Odissea Omero, attingendo al verbo dýnamai che significava ‘posso’ dal quale è derivata la dýnamis, scrive “Theoi pànta dynantai”, gli dei possono tutto. Sono potenti, appunto, riescono a incidere nelle vicende degli esseri umani con le loro turbolenze, con il loro aiuto, con i loro sì e con i loro no.
Con solerzia, in cammino
Riferito a una persona, vuol dire ‘alacre’ e ‘attiva’. Riferito a cose, significa ‘fatto con diligenza e accuratezza, con grande impegno’. L’aggettivo solerte è anch’esso appartenente all’area semantica della rapidità e della velocità. Scrive Giovanni Boccaccio (1-VI-40) su Sant’Agostino, filosofo algerino, padre della Chiesa, dottore della grazia: “Similemente troverebbono santo Agostino, nobilissimo dottore, non avere auto in odio la poesia né i versi de’ poeti, ma con solerte vigilanzia quegli avere studiati”. La solerzia qui diventa anche diligenza, oltre che alacrità e sollecitudine.
Solerte è la persona pronta all’adempimento dei propri compiti, diligente, laboriosa. La parola italiana si compone di due parti derivanti entrambe dal latino: sollus, che voleva dire ‘tutto’, ‘intero’ e ars, artis ‘capacità’ ‘tecnica’, ‘abilità’. Quel sollus è un prestito osco (lingua parlata nella Campania pre-romana), secondo la testimonianza di autori antichi, corrispondente al latino salvus, e lo ritroviamo nelle parole italiane, solerte, sollecito (da sollicĭtus ‘inquieto’, ‘affannato’, ‘ansioso’) e solenne dal latino sollemnis -e ‘che viene celebrato ad una data fissa’, detto di cerimonie religiose, composto di sollus ‘tutto’ e annus ‘anno’. Da quell’antico ars, artisè invece fiorita in italiano l’arte. Solerte è la persona capace in tutto, che a tutto cerca di dare risposta, che per tutto trova una ragione valida per l’azione.
La poesia dell’alacrità
La persona alacre lavora con trasporto, con vivacità e sveltezza. È pronta, sveglia, ha gli occhi vispi che osservano il paesaggio attorno a sé. È infaticabile e instancabile. È piena di entusiasmo, di brio, di voglia di spaccare il mondo. L’impiegato che sta allo sportello quando è alacre appare pronto, svelto e sollecito. L’aggettivo latino da cui deriva, ălăcer -cris -cre significava ‘vivace’, ‘entusiasta’ e ha generato in italiano due voci, una di registro più elevato, alacre appunto, e l’altra più popolare, allegro. La poetessa milanese Alda Merini (1931-2009) ha accostato l’alacrità alla poesia in una lirica meravigliosa pubblicata in Alda Merini: Fiore di poesie 1951-1997, Einaudi, 1998, pagina 224, a cura di Maria Corti.
La mia poesia è alacre come il fuoco,
trascorre tra le mie dita come un rosario.
Non prego perché sono un poeta della sventura
che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore,
sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida,
sono il poeta che canta e non trova parole,
sono la paglia arida sopra cui batte il suono,
sono la ninnananna che fa piangere i figli,
sono la vanagloria che si lascia cadere,
il manto di metallo di una lunga preghiera
del passato cordoglio che non vede la luce.
Piano, piano, lentamente
Il contrario di veloce è lento. Lenta è la persona che muove piccoli passi, che procede con calma, adagio, senza fretta, che è estremamente ridotta nella velocità. “Scalare colline ripide richiede inizialmente un passo lento.”, scriveva William Shakespeare. “Io cammino lentamente ma non camminerò mai all’indietro”, aggiungeva Abraham Lincoln, presidente degli Stati Uniti dal 1861 al 1865. La parola lento in origine non era connessa alla velocità ma alla flessuosità. Sì, il latino lĕntu(m) è di origine indoeuropea: significava ‘flessibile’, ‘viscoso’, ‘lento’, ‘pigro’, ‘durevole’. In spagnolo liento vuol dire ‘umido’ (disusato, mentre lento ‘lento’ è di trasmissione dotta), in portoghese lento signfica ‘umido’. Il latino lĕntus si può confrontare con il germanico: l’antico alto tedesco lindi voleva dire ‘mite’, ‘molle’; in inglese lithe sta per ‘flessibile’.
Secondo il naturalista americano Edwin Way Teale, “Per osservare la natura, il ritmo migliore è quello di una lumaca”. Per scrutare la bellezza della natura serve dunque un ritmo lento. Ma in generale per le tante sfaccettature della vita è così. Chiosa Eddie Cantor, comico e sceneggiatore americano: “Rallenta e goditi la vita. Non è solo il panorama che ti perdi andando veloce, ma anche il senso di dove stai andando e perché”.