S’incontrano persone inarrestabili. Quelle arrestabili le osservano, ammiratissime e anche impensierite dall’eventualità di dover fare altrettanto. Il bello, però, è che le inarrestabili non faticano come le arrestabili credono perché sono animate da una vitalità che non contempla la resa né tantomeno la fine. Quasi fossero possedute.
Infatti Cristina Bozzolini, un’artista che potrebbe suscitare il tradizionale titolo di giornale Bozzolini, una vita per la danza, ammette con umiltà di aver avuto paura solo con la malattia. Ballerina del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, fondatrice della Scuola del Balletto di Toscana, del Collettivo danza contemporanea, del Balletto di Toscana, del Nuovo Balletto di Toscana, direttrice dell’Aterballetto e del Balletto di Roma, direttrice artistica del festival Nutida con Saverio Cona, asserisce di avere ottant’anni. Età ben nascosta all’altrui sguardo, forse grazie alla disciplina tersicorea e alla perseveranza.
I medici la incitano a non placarsi e lei continua imperterrita a prodigarsi per gli eccezionali giovani danzatori del Nuovo Balletto di Toscana (lampante che lo farebbe anche senza benedizione sanitaria) ai quali ha donato una maître de ballet della portata di Sabrina Vitangeli. Fa la spola fra Reggio Emilia, dove abita, e Firenze, suo luogo natale e sede del NBDT.
Una febbre tanto bruciante è innata?
Da piccola non mi ricordo di aver avuto questa passione. Ero interessata un po’ a tutto. Andavo agli Uffizi, ci ritornavo. E la musica. Forse perché mia madre era pianista e mio padre pittore. Mamma mi mandò a danza, m’innamorai subito e provai la voglia di proseguire. I miei genitori erano moderni, mai sposati, avanti: nel ‘43 erano come me nel ‘68. Non ho mai conosciuto la convenzionalità.
Un sollievo, no?
Naturalmente ho capito che il mondo era differente e che bisognava accettarsi tutti: un grande insegnamento. Mia madre a periodi aveva tanti allievi, poi ci fu la guerra e nessuno studiava musica. A quei tempi frequentavo la terza commerciale perché alle persone più povere dava già un qualcosa: la dattilografia, la stenografia. Insomma, potevo fare quello che non avrei mai fatto!
Sentivo ormai la danza in me, la passione era divampata e non ho avuto dubbi. Negli anni Cinquanta-Sessanta le bambine, figlie dei notai e degli avvocati, frequentavano danza per le buone maniere. Quelle che studiavano per diventare ballerine erano una rarità: il mestiere non era considerato giusto e, semmai, un po’ pericoloso, ma il mio desiderio ha trovato spazio perché già a sedici anni il Maggio Musicale mi prese a ballare.
Mi sono fidanzata presto, mi sono sposata a vent’anni e mio marito è venuto da Milano per fare l’università a Firenze. Sono stata fortunatissima, io, con gli uomini.
Ce lo racconta?
Ho avuto un marito, Lapo Berti, e poi un compagno, Riccardo Donnini, che mi hanno amato ed erano felici di aiutarmi. Ne sapevano molto più di me perché io ho sempre voluto accanto qualcuno che sapesse molto più di me. Si stimavano e volevano bene Lapo e Riccardo. Noi siamo stati precursori della famiglia allargata.
Tornando agli inizi. Anche se non andavo a scuola, nel tempo libero leggevo tantissimo: la letteratura francese e quella russa. Scrivevo quello che avevo capito e mandavo le lettere a Milano a Lapo che faceva il liceo ed era bravissimo. La volontà di conoscere non mi è mai passata.
Niente di meglio che essere un’artista per esprimere l’anti-convenzionalità. Si può viverla senza penare.
Non ho penato assolutamente. Era meraviglioso fare la danzatrice. I primi tempi fu solo gioia e quei soldini che guadagnavo per aiutare mia madre... Col Teatro Comunale facevamo spettacoli stupendi al giardino di Boboli. Anche quando andavo a lezione non vedevo l’ora fosse il giorno dopo per verificare se un passo mi riusciva o no. Parlo del ’58, del ’60. Nei momenti liberi giravo l’Italia ballando nelle opere perché non era comune si mettessero in scena i balletti, al di là degli enti lirici. Un’esperienza che mi ha fatto conoscere tante opere.
I piccoli dispiaceri c’erano, inevitabile, ma io ricordo un’epoca splendida. Ho sempre vissuto intensamente. Pensavo: chissà quanta gente brava c’è nel mondo, quindi devo dare il più possibile. Dentro di me ho sempre sentito la voglia di fare tanto e bene. Saranno i geni, il carattere. Mio padre era sicuramente così, mia madre forse più evanescente, ma mi ha assecondata: sono stati entrambi delle guide, senza impormi niente.
Divenne famosa da giovanissima?
Diciamo che cominciavo a essere nota. Conobbi Carla Fracci. A diciotto anni mi chiamarono per una serata di balletto classico su Rai 1 dove c’erano tutti i danzatori della Scala. A diciannove sono stata un anno a Parigi, da mio padre. Ho studiato molto in Francia e avrei potuto rimanere lì, ma volevo impegnarmi per l’Italia. Abbiamo fatto una battaglia per diventare stabili con il Comunale di Firenze. Era il 1966. Il concorso l’avevamo il giorno dell’alluvione, ma non fu un segnale sinistro: recuperammo il concorso un mese dopo e io arrivai a essere prima solista.
Ho fatto tutta la carriera al Comunale. C’erano soldi, sovrintendenti meravigliosi e il Maggio Musicale aveva il vantaggio, rispetto agli altri enti lirici, di coltivare il nuovo, ed è stato fondamentale perché noi danzavamo sia i classici che il contemporaneo. Ho imparato a non fossilizzarmi sul classico, pur amandolo tantissimo.
Con chi ha ballato?
Con Nureyev, Baryshnikov, Amodio e tutti gli uomini e le donne più grandi. Meglio di così! Ho lavorato sodo. Ho fatto anche una bambina, Sveva. Avevamo deciso con Lapo che avrei ballato per dieci anni e poi avrei fatto il primo figlio. Dopo tre mesi di matrimonio rimasi incinta. L’anticoncezionale di allora era Ogino-Knaus…ma le nonne mi hanno aiutato moltissimo. Insomma, fino alla pensione, nel 1983, è stato tutto bello.
Poi che cos'è successo?
Ero iscritta al Pci perché l’aspetto sociale mi ha sempre seguito. Al circolo ferrovieri davo lezioni ai bambini che non potevano pagare e mia madre ci accompagnava al pianoforte. Mi scattò la passione dell’insegnamento. Mentre ballavo ancora, nel 1970, avevo aperto una scuola prestigiosa in piazza della Signoria. Posteggiavo la mia Mini e verso maggio c’era una luce rosa, Palazzo Vecchio diventava rosa. Firenze era soave, persino ogni negozio rappresentava qualcosa ed era un tutt’uno con la magnificenza della città. Io adesso soffro molto. Perciò quando sono andata in pensione potevo tranquillamente essere una signora benestante, con la sua scuola invece, non so…
Invece ha fondato il Balletto di Toscana?
E ancora prima avevo fondato, insieme a dei solisti del Comunale, il Collettivo danza contemporanea, una delle tre compagnie che viaggiavano in Italia. Le altre erano quella di Elsa Piperno ovvero la danza di Martha Graham nel nostro paese, e i Danzatori scalzi. Con il Balletto di Toscana sono venute fuori le magagne italiane: l’organizzazione difficile, la mancanza di soldi. Ricevevo una sovvenzione che avevo già avuto con il Collettivo, con il mio compagno Riccardo ci lanciammo in questa avventura da “croce e delizia”, come nella Traviata.
Quindici anni d’un piacere, d’una bellezza, d’una soddisfazione: la compagnia era arrivata in alto, si è viaggiato tantissimo, a New York, Los Angeles, San Francisco tutte le sere c’era una standing ovation, anche in teatri di tremila persone. Esistevano le stagioni di danza estive, allora: si facevano venti spettacoli a luglio e agosto però con le istituzioni è cominciata la sofferenza.
Ritengo ci debba essere posto per tutti, ma non devi levare fondi a chi ha dimostrato di far bene e distribuirli in qua e là per aumentare il consenso. La Regione doveva trovare altre risorse. Il Comune non era stato mai presente, si prendeva dal Ministero. Gli oneri erano enormi: i contributi, l’agibilità, la sede nuova. Nel tempo ci abbiamo messo tutti i nostri soldi personali, per non parlare della mia casa in una stradina vicino a Porta Romana.
I dispiaceri sono stati grandi. Ci invitavano ovunque, andavamo in tv e non sapevamo darci una ragione del perché, nonostante i critici scrivessero cose fantastiche di noi, la Vittoria Ottolenghi, che era la più illustre, ci ha sempre sostenuto, le istituzioni si comportassero così. I ballerini erano veramente belli e bravi, un po’ un mito. A Spoleto in una maratona di danza ci fermavamo per strada.
Che goduria!
Sì, goduria: è una parola che adopro anche io. Ma questa mancanza di fondi ci ha massacrato. Se qualcuno doveva avere dei soldi da noi e non li avevamo, piangevo. E poi è arrivata una cosa che proprio mi ha tolto la forza: il tumore al seno. Ero sempre stata sanissima, celebre per non avere saltato uno spettacolo in 27 anni.
È una delle ragioni per cui la compagnia ha chiuso?
Sì. Ventidue anni fa parlare di cancro era ancora difficile, ma ora è bene dirlo. Il peggio è venuto dopo l’operazione: provavo un senso di paura, camminavo e mi dicevo: beate queste persone che non pensano sempre alla morte. È stato l’unico periodo della mia vita in cui mi sono sentita fuori dal mio guscio, diversa. A insegnare venivo, tuttavia.
Si dedicava solo alla scuola?
Nooo. Ci fu lo Junior Balletto di Toscana. Si fece una serata a Iesi, un successo pazzesco, Rossella Battisti scrisse un articolo stupendo. Non erano professionisti, ma ci cercavano senza che Riccardo facesse una telefonata. Che gentiluomo era Riccardo, trattava le donne con rispetto.
L'Aterballetto?
Mio genero Mauro Bigonzetti che, con mia figlia Sveva era stato cinque anni nel Balletto di Toscana, era direttore e coreografo principale dell’Aterballetto, ma in realtà voleva fare solo il coreografo. So che dissero: meglio della Cristina Bozzolini non può esserci nessuno. E mi chiamarono. Io fui molto contenta: non rinuncio mai alle sfide, da 35 anni dirigo compagnie. Ho smesso di ballare a 40 anni proprio perché volevo creare una compagnia. Ho portato in Italia maestri immensi. Solo di fronte alla malattia mi sento debole. I dieci anni all’Aterballetto sono stati meravigliosi perché non dovevo pensare ai soldi e potevo dedicarmi al lato artistico. Con i danzatori è stato un amore e nessuno è andato via. O forse uno. Di solito nelle compagnie ogni anno qualcuno lascia. Quando, come accade, c’è stato un cambio politico sono tornata a Firenze e ho fondato il Nuovo Balletto di Toscana.
Con tanto successo, siete premiati e applauditi.
Sì, ma è importantissimo dire che in Italia ancora ci vuole il titolo conosciuto sennò lo spettacolo non si vende e questo è limitante. All’estero ci pensa il teatro a crearsi il pubblico e allora è aperto alla novità e alla varietà. In Germania, dove sono andata con tutte le compagnie che ho diretto, le sale sono sempre piene, nelle cittadine come nelle metropoli. Hanno un rapporto con gli abbonati, dialogano, li curano e fanno iniziative apposta, c’è anche un’educazione diversa fin da ragazzini e, indubbiamente, non hanno il sole, le bellezze, la Cupola a distrarli. Parlando dell’Italia, devo dire che a Vicenza fanno un buon lavoro.
Prima del Quator pour la fine du temps andato in scena al Teatro Studio di Scandicci, lei ha tenuto a dire che Oliver Messiaen compose la musica in un campo di concentramento.
Non potevo mettermi a spiegare il Nazismo sennò diventava una conferenza, ma nel pubblico c’erano tanti ragazzini validi e studiosi e non volevo che fosse un’occasione mancata, che non capissero. Infatti l’hanno capito e apprezzato, il Quator, con quei movimenti straordinari, quei costumi severi (il balletto è appena andato in scena a Verona per la giornata della memoria n.d.r.).
Ecco, ho raccontato di me: perché io sia stata così non lo so. So che mi domando sempre: come saranno le vite delle persone che non hanno passioni? Non conosco un giorno senza passione.