Tra composizioni e improvvisazioni, acustica ed elettronica, le 'levitazioni sonore tra Natura e Rovina' del musicista pugliese. Le riflessioni sulla Xylella diventano musica del nuovo millennio, con sorprendenti risvolti artistici.
Racconti dalla fine del mondo: levitazioni sonore tra Natura e Rovina Titolo e sottotitolo evocano scenari, lasciando dunque trapelare una complessità di fondo nella genesi del disco. In prima battuta, tre anni di lavorazione: come mai questo tempo così lungo?
Credo che fare un disco ai giorni nostri sia un’azione poco sensata, quanto in un certo senso rivoluzionaria. Si dice: “il mercato della musica è cambiato”, e questo è vero ma ancor più rilevante è il fatto che sia cambiato il senso che la musica ha per la società e per le comunità. In questi nuovi scenari fare un disco in senso tradizionale, alla vecchia maniera diciamo, è un gesto fuori moda e quasi insensato. Anzitutto perché i dischi non si vendono più, i negozi stessi di dischi sono quasi spariti.
Ma, andando oltre l’aspetto meramente pratico, il disco inteso come opera completa, integrata, sistemica e uniforme ha lasciato il posto a un sistema in cui i singoli brani sono pubblicati con costanza e, troppo spesso, presto dimenticati. Si farebbe presto a riconoscere in questa tendenza una forma ancor più radicata di consumismo ma questo pensiero potrebbe essere superficiale. Credo che il rapporto fra la musica e la società sia destinato a cambiare continuamente. Era già successo tante volte nella storia, soprattutto nel 900, e sta succedendo ancora.
Ecco perché ho usato il termine rivoluzionario. Al tempo d’oggi, agire, fare arte senza scopi diretti, anzi con la consapevolezza dell’insensatezza di alcune azioni, è un gesto importante perché riconduce la creazione artistica alla sua radice naturale, espressiva, profondamente umana. Tutti questi pensieri (e tanti altri) mi hanno tenuto occupato per 3 anni, in effetti.
L'idea chiave è territoriale e ambientale, ossia la piaga della xylella nel tuo Salento, ma l'opera va oltre: tra Natura e Rovina. Ci spieghi questo processo?
Non posso fare a meno di guardarmi intorno. Oggi il Salento è quasi desertificato. Appena ieri – e, credetemi, si fa davvero fatica a farsene una ragione – era un territorio verde, ricco, onnipotente. E’ un colpo al cuore e lo vivo ogni giorno, uscendo di casa.
Questo sentimento mi ha condizionato inevitabilmente, aggiungendo un ulteriore strato urgente, reale alle mie peregrinazioni visionarie sul concetto stesso di rovina. Sono sempre stato attratto da un certo tipo di visioni distopiche sul futuro. Le migliori di esse sono una proiezione dei nostri disastri e delle nostre rovine attuali, quelle di cui non abbiamo coscienza ma che impregnano la nostra quotidianità.
Questo disco è una trama intrecciata di entrambe queste componenti: la memoria della natura, il mio legame vitale con essa, e le mie visioni sul futuro, su quella sottile, fragile bellezza che emana dal senso stesso della Rovina e del disastro. Questa ambiguità si riflette anche nella musica e nel suono: sono molto affascinato dall’idea della costruzione di un’estetica del brutto, del guasto, del lo-fi, in armonica convivenza con elementi di connotazione decisamente acustica ed hi-fi.
Nei tre anni di lavoro hai raccolto sia improvvisazioni che composizioni, un'ulteriore dicotomia che connota l'album: qual è il punto di incontro tra queste due modalità?
Per me, per come ho sempre pensato la musica, non esiste una vera separazione fra questi due processi. La maggior parte delle mie composizioni nasce da improvvisazioni e, dal canto opposto, non riesco mai ad eseguire una mia composizione senza improvvisarne almeno una minima parte.
La differenza in questo disco sta nel fatto che mi sono imposto sin dall’inizio di non lavorare successivamente sulle improvvisazioni. Ma di lasciarle così, anche irrisolte, incompiute. Nel passato sono sempre stato piuttosto attento all’aspetto formale, alla compiutezza della forma compositiva e, per questo motivo, tendevo a ritornare sulle improvvisazioni per dargli sempre una forma finale e compiuta, come composizioni appunto. In questo caso invece, sfruttando le potenzialità e i caratteri dell’elettronica, ho voluto che una parte del disco fosse totalmente libera e non condizionata da interventi successivi. E così è stato.
Anche le sonorità messe in campo, ossia elettronica e acustica, tradiscono questa dicotomia. Una tua riflessione sugli strumenti, chitarra elettrica baritona da una parte, sintesi e processamento dell’elettronica modulare dall'altra.
Da sempre mi nutro dell’energia delle contraddizioni. La gente mi definisce in genere come una persona piuttosto coerente ma, in realtà, la mia coerenza nasce da un celato atteggiamento polarizzante. Sul disco ho sfruttato questa energia. D’altronde la storia stessa della musica elettroacustica si basa su questa forma di rapporto e sulle sue possibili “elevazioni”.
Nel mio caso ho la fortuna di usare la chitarra (acustica ed elettrica baritona) che per sua stessa natura vanta possibilità espressive e di spettro sonoro veramente illimitate. Se a ciò si aggiunge l’elettronica… Negli ultimi 8 anni ho lavorato sulla costruzione di un set strumentale originale che integrasse in maniera quasi “biologica” (in una sorta di tentativo cronenberghiano) la chitarra elettrica con i modulari ed altri strumenti elettronici. Il risultato sonoro di questa fusione è rilevabile in particolare in Quando il gigante si sedette fece suonare il suo carillon e nelle due parti di Mani troppo grandi per un clavicembalo.
Benchè si tratti di un lavoro solista, l'album ospita il contributo di sette artisti (attivi tra grafica, poesia, pittura, cinema): qual è lo spirito di tale coinvolgimento?
Ho voluto che la mia voce fosse accompagnata da altre voci affini. Quasi un racconto corale in cui, ognuno a suo modo e col suo linguaggio, testimoniasse il suo pensiero e la sua sensibilità riguardo al titolo dell’opera. Ilaria Seclì, Egidio Marullo, Valentina Sansò, Walter Forestiere, Davide Barletti e Lorenzo Conte, Maria Teresa De Palma, Daniele Coricciati sono artisti che stimo moltissimo ed ero certo di andare sul sicuro chiedendo un loro contributo. Con alcuni di loro ho discusso sul senso di questo lavoro e questo mi ha arricchito molto. Li ringrazio profondamente per il loro dono.
Visto che la tua musica agevola risvolti extramusicali, è stata scelta come colonna sonora per Il tempo dei giganti di Davide Barletti e Lorenzo Conte: ancora una volta il Salento tra memoria e presente.
Sono davvero contento di questa collaborazione. Conosco Davide e Lorenzo da anni e mi piace la cifra stilistica che entrambi hanno regalato al cinema italiano degli ultimi anni. Crediamo che questo film possa essere una possibilità per il grande pubblico di conoscere quello che sta avvenendo in Puglia. La vicenda della Xylella non è un problema solo locale; sta dilagando ormai oltre il territorio brindisino e in breve potrebbe coinvolgere buona parte del sud Italia. Migliaia di vicende umane ne sono state condizionate e altrettante ne saranno.
Guardando più in profondità, qui è in ballo l’equilibrio tra uomo e natura, tra globalizzazione e diversificazione. Il film è uno sguardo lucido sul passato ma ha anche il merito di far luce sulle possibilità future, su nuovi orizzonti possibili per l’agricoltura e per la società.
A proposito di collettivo e squadra, Racconti dalla fine del mondo esce per Desuonatori: più che un'etichetta, un "coordinamento di autoproduzioni"...
Desuonatori è un collettivo di musicisti che hanno scelto la via dell’autoproduzione per rendersi indipendenti da certi automatismi del mercato musicale e per riappropriarsi di ogni fase della filiera del processo produttivo. L’intento alla base di Desuonatori è certamente la produzione di musica. Siamo tutti musicisti e compositori e scrivere musica, registrarla e proporla in concerto è la nostra vita. Il nocciolo di tutto è ricercare un rapporto sano, realmente comunicativo col pubblico, riavvicinare la musica e le persone, indipendentemente dai linguaggi musicali. Oggi, dopo dieci anni di attività, siamo sempre alla ricerca di nuove strade. In musica, in arte e nella delicata relazione col pubblico.
Disco fisico e digitale, ma solo su Bandcamp: per quale motivo?
Ho sempre amato Bandcamp. Credo sia l’unica fra le piattaforme attuali che ha dimostrato di gestire in modo sano, umano e misurato il rapporto con gli artisti e i musicisti. Per di più, negli ultimi anni, è diventata una fucina di progetti e di musicisti estremamente interessanti, spesso indipendenti dal mercato tradizionale.