Cosa significa rivedere l’arte del Novecento, con gli occhi di Baudelaire? Cosa ci dicono le sue parole a proposito del Salon parigino del 1846, dei movimenti artistici a venire? Il suo pensiero fu presagio dell’arte futura così come la concepiamo oggi? Adolfo Tura ha recentemente curato due splendidi volumi in merito e ce ne parla, senza lesinare nuovi punti di vista e di ricerca.
‘Breve storia delle macchie sui muri’ ed ‘Il Novecento di Baudelaire’ sono due opere caratterizzate da un approccio unico e trasversale. Qual è stata la loro genesi, quali le sfide incontrate e i mezzi di ricerca utilizzati?
Sia il testo sulle macchie che quello riguardante Baudelaire cercano di proporre nuovi approcci alla lettura dell’arte novecentesca. Le tesi avanzate nel saggio di due anni fa non bastano a spiegare la pittura di Pierre Bonnard, Jean Dubuffet e Jasper Johns, tantomeno nel “Novecento di Baudelaire” è possibile definire l’opera di Matisse. Pertanto li si può definire degli spunti che vengono proposti al lettore con la speranza di far vedere loro l’arte sotto una luce diversa. L’approccio trasversale cui è stato fatto riferimento nella domanda, consiste nel tentativo di analizzare parallelamente non solo l’arte figurativa, ma anche la letteratura e il pensiero filosofico che ha caratterizzato il novecento. E non so se il metodo che utilizzo si focalizza più sulla cautela o sulla disinvoltura. Mi spiego: per “cautela” intendo dire che il fatto che un poeta frequentasse lo stesso ambiente di un pittore, o che entrambi abbiano firmato lo stesso manifesto non dev’essere per forza qualcosa di realmente significativo. Lo spirito di un ambiente si riduce per lo più a certi vezzi condivisi, a voghe superficiali da non prendere troppo sul serio. Per “disinvoltura” invece, intendo che da artisti, scrittori e pensatori che si sono ignorati tra di loro, e che sono anche distanti di qualche decennio dall’uno all’altro, possono emergere somiglianze dal quale si evincono le inquietudine di un’epoca.
Baudelaire, al centro del suo ultimo lavoro, è analizzato come figura chiave nell’arte del Novecento. Perché, pensa, abbia influenzato la modernità in modo così prepotente e perché gli ha associato il termine “evanescente”?
Oggetto del libro non è l’influenza esercitata da Baudelaire sul Novecento (che è stata certo grandissima), ma l’idea che egli abbia prefigurato e, per così dire, invocato un’arte figurativa – e precisamente una pittura – che avrebbe cominciato a vedere la luce un cinquantennio più tardi. Ho ritrovato questa idea in una affermazione di Louis Aragon, secondo il quale “Baudelaire avrebbe adorato Matisse”. Uno storico dell’arte confinato nella sua disciplina non si esprimerebbe mai in questo modo, eppure la frase coglie qualcosa di essenziale. Nel libro chiamo evanescente un’arte che, rinunciando a qualcosa della sua godibilità immediata, si consegna al ricordo dello spettatore, per parlargli nell’intimità di un successivo raccoglimento. I poemetti in prosa di Baudelaire funzionano in questo modo e si può dire la stessa cosa riguardo la pittura di Matisse.
Lei ha curato – altresì – l’introduzione alla recente riedizione de Il Salon del 1846. In che misura, è ancora da considerarsi un testo di riferimento?
Il “Salon del 1846” è ancora oggi un testo fresco. Baudelaire difende l’idea che il critico debba prendere posizione rispetto alle opere valutandole iuxta propria principia, vale a dire misurandone il grado di fedeltà a loro stesse. È riuscito l’artista ad andare sino in fondo? La sua è una pratica autentica? Sono le domande che un critico dovrebbe porsi anche oggi. Baudelaire odia tutti gli indecisi e il suo è un incitamento perché ogni artista avanzi con risolutezza nella direzione che gli si confà, senza preoccuparsi d’altro.
Perché – come recita il titolo di un capitolo del libro – non si deve considerare Matisse un espressionista?
Uso il termine “espressionismo” in senso categoriale, non per designare un movimento, ma un atteggiamento di scontento nei riguardi della realtà che porta l’artista all’aspirazione di una realtà più vera, per così dire una realtà sostitutiva. Lo scontento in questione è tipico della modernità e sia Baudelaire sia Matisse ne sanno qualcosa, ma l’uno e l’altro si guardano dal rinunciare alla realtà. Piuttosto la riscattano attraverso il prestigio della memoria.
Posso chiederle se sta lavorando a progetti futuri?
Attualmente sto lavorando sul tema della beffa. Per dirla in una sola frase: dell’arte che si fa beffe dello spettatore…