Le nostre città, la nostra casa urbana, appaiono sempre più come prese in una morsa, schiacciate dalle ganasce di una tremenda tenaglia. Da un lato, le amministrazioni locali (su cui da decenni lo stato scarica il peso dei tagli di bilancio), vuoi per mancanza di fondi, vuoi per pressapochismo, stanno portando le città al collasso. Servizi pubblici quasi inesistenti, ‘deregulation’ selvaggia, qualità della vita in caduta libera. Dall’altro, le città d’arte (e quante in Italia non lo sono?) vengono prese d’assalto dall’industria turistica di massa, che le soffoca, le snatura, le consuma. Non passa giorno senza che lamentiamo - qui e là - la chiusura di una libreria, di un antico negozio di dischi, di un cinema. Assai più indifferenti, purtroppo, ci lasciano le chiusure di quei luoghi autogestiti (l’Angelo Maj, il teatro Valle...) che pure sono non meno importanti presidi culturali.
È in atto un processo di progressiva depauperizzazione urbana, ed al tempo stesso di estrema privatizzazione di tutto ciò che è pubblico - sia esso un bene materiale o immateriale. Vi sono città nei cui centri storici è ormai pressoché impossibile camminare a piedi, stante l’invasione dei dehors; non parliamo poi di sostare, cosa resa assai difficile dalla scomparsa delle panchine, sostituite dai tavolini di bar e pizzerie. Ma il vero dramma è che su questo declino - che di ciò si tratta - abbiamo costruito una retorica (vuota), una lamentazione pleonastica, magari anche sincera ma del tutto inane. Una sorta di conservatorismo piagnucoloso, che oppone al cambiamento tout court la nostalgia di un presente che inesorabilmente fugge via. Le città sono ben altro che agglomerati di pietre e cemento, sono organismi viventi, ed in quanto tali si trasformano, di continuo.
Il problema non è la trasformazione, il cambiamento in sé; il problema è se ciò non avviene in conseguenza di una crescita ‘naturale’, ma piuttosto di una crescita ‘tumorale’. Se a guidare la trasformazione sono appetiti predatori, l’esito sarà ineluttabilmente lo svuotamento, la sterilizzazione della vita sociale, affinché rimanga intatto solo il carapace della città, una scenografia di pietre e cemento da rivendere sul mercato del mordi-e-fuggi. I presidi culturali, gli spazi pubblici, sono i luoghi da cui ripartire per riannodare le maglie di una rete di relazioni, fondamento del senso di cittadinanza; perché la democrazia richiede non solo elettori consapevoli, ma cittadini motivati dal senso di appartenenza ad una comunità. E quindi comprare un libro, ascoltare un concerto, persino chiacchierare in una piazza, non è semplicemente contribuire a tenere aperta una libreria, o salvaguardare uno spazio autogestito, o preservare la funzione pubblica di un luogo, ma è anche - sempre - un esercizio di democrazia attiva, un modo per tenere viva la propria città.
Ci sono processi di trasformazione della società che procedono in direzione di una monadizzazione dell’essere umano, processi che negli ultimi anni - grazie a politiche fondate sull’induzione della paura - hanno subito una forte accelerazione. In conseguenza di tali processi, le città sono sempre più meri luoghi di transito - vuoi di monadi indigene, che li percorrono in un ping-pong casa/lavoro, vuoi di monadi allogene, in temporanea trasferta vacanziera. Per di più, la riduzione dei profili culturali locali a folklore, la successiva cristallizzazione di questo nella sua rappresentazione iconografica, e da ultimo la necessaria omologazione implicita nella industrializzazione del turismo, rendono sempre più simili l’uno all’altro i luoghi, cosicché il viaggio si trasforma sempre più in una mera re-dislocazione occasionale; il turista è colui che va in un’altra città, per vedere un centro storico non sostanzialmente dissimile da quello della sua. Urge riprendersi la città, la vita.