La contemporaneità costituisce un terreno molto variegato per ciò che concerne l'industria cinematografica, capace di rispondere alle esigenze più diverse e di risvegliare insospettabili piaceri visivi. Da un lato, infatti, la necessità di stimolare continuamente l'attenzione dello spettatore - sempre più assuefatto a dei medium che fanno della rapidità ed estemporaneità di fruizione la tipologia di interazione ricorrente - ha spinto un certo tipo di cinema a rafforzare quelli che erano geneticamente, si potrebbe dire, alcuni suoi punti di forza.
Si pensi ai cinecomic, agli action-movie e a tutti quei titoli che fanno della spettacolarità la propria chiave imprescindibile; film che oggi sfruttano magistralmente la CGI (computer-generated imagery), alleata fondamentale al fine di assicurarsi gli scenari più incredibili in cui immergere i beniamini del pubblico.
Al lato opposto di questo universo è situato lo slow cinema, una corrente volta a limitare, quando non proprio ad azzerare, tutti quegli espedienti visuali e narrativi poco fa sinteticamente raccolti. Una scelta audace ed in aperta controtendenza con le esigenze attuali, agli antipodi rispetto a quel cinema che vuole costantemente lasciare a bocca aperta il proprio fedele pubblico.
Non parliamo, ad ogni modo, di qualcosa sorto recentemente come sfida o provocazione artistico-intellettuale. Le radici di tale idioma produttivo sono difatti ravvisabili nella seconda metà del Novecento: autori come Antonioni, Bresson, Tarkovskij e Tarr, per citarne solo alcuni, hanno saputo magistralmente far ricorso alle stasi narrative, ad iconici e lunghi piani sequenza, a lenti movimenti di macchina e a tutto ciò che, ad un primo approccio, risulta distante dai più popolari codici linguistici del medium.
Roy Andersson si colloca nel solco di questi illustri predecessori, pur portando in dote alcune specifiche caratteristiche e qualità. Un autore che, analogamente ad altri contemporanei, ha volutamente deciso di perseguire una strada peculiare e a tratti estrema per affermare la propria arte, il proprio estro e la propria creatività. A partire dal percorso affrontato nel mondo del cinema, alquanto singolare. A Swedish Love Story (1970) rappresenta il suo approccio con il mondo della Settima Arte: un'ottima pellicola che riuscì a concorrere per il Festival del cinema internazionale di Berlino, sfiorando anche la partecipazione alla serata conclusiva degli Oscar. Giliap (1975), lungometraggio successivo, è l'anticamera di una lunghissima pausa creativa, inframezzata da una intensa carriera nel mondo della pubblicità e dei documentari, firmando anche alcuni cortometraggi.
Solamente nel 2000 Andersson torna a far parlare di sé per la sua genialità nel campo filmico. E lo fa con un titolo, Canzoni del secondo piano, che colpisce subito per lo stile e per il trattamento riservato alla pellicola: le varie sequenze che compongono l'opera sono infatti contraddistinte da inquadrature autarchiche e statiche, capaci quasi di rievocare le prime vedute dei fratelli Lumière.
I movimenti di macchina, infatti, sono una merce rarissima nel cinema di Andersson, fatta eccezioni per alcune sequenze che, a partire da Canzoni del secondo piano, possono essere contate sulle dita di una mano. Uno stile quindi che fa avvertire tutto il peso e la presenza della macchina da presa, così ben salda al proprio posto nonostante tutti i fatti che vengono compiuti in primo piano, in secondo piano ed anche sullo sfondo.
Andersson non rinuncia mai a popolare lo schermo di molteplici situazioni, rendendo l'impalcatura complessiva quasi una sorta di scena multipla di stampo teatrale medievale; o viceversa, a svuotarlo completamente, rendendo l'unico personaggio presente nel profilmico come un vano messia nel deserto (urbano) che lo circonda. Personaggi che risultano sovente in crisi e con difficoltà di vario tipo, ma sempre all'interno di scenari nonsense, grotteschi e surreali, capaci di straniare lo spettatore dal racconto e di porlo a confronto con un mondo assurdo, dove la logica perde ogni valore e dove può succedere qualsiasi cosa in ogni momento.
La staticità che imperversa nella macchina da presa invade anche la messinscena, con la forma che diventa contenuto: quasi a voler impedire ogni possibile accelerazione o dinamismo, anche le figure riprese manifestano una decisa propensione per l'immobilità. In tale scenario, la fotografia cinematograficamente intesa (cinematography) accorcia notevolmente la distanza dalla sua cellula base, quella fotografia (photography) che predispone i frames per second necessari al medium filmico per poter essere correttamente fruito dall'occhio e dalla mente umana.
Si potrebbe dire di aver a che fare con dei veri e propri tableaux vivants, non fosse per quei minimi movimenti richiesti dalla trama per alcuni personaggi, mentre le altre comparse risultano quasi bloccate - quando non del tutto pietrificate.
Alcuni personaggi ritornano nel corso della pellicola, creando una sorta di continuità con la relativa cornice narrativa; altri, diversamente, svaniscono dopo un'unica sequenza che, talvolta, non supera nemmeno il minuto, assumendo il sapore di intermezzo più che di spaccato di vita. È un cinema che non nutre alcun interesse per l'immedesimazione, creando invece situazioni che spaziano dal teatro di Beckett a quello di Brecht, passando per la scomparsa del nesso causa-effetto, per la rottura della quarta parete e per un comune destino tragicomico a fare da legante tra le varie storie.
Non a caso, Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (2014) e Sulla infinitezza (2019), ultimi due lungometraggi ad oggi realizzati, rafforzano l'aspetto episodico ed aneddotico mediante due stratagemmi narrativi posti in apertura delle singole sequenze: il primo, anteponendo una didascalia-titolo; il secondo, inserendo un breve voice-over a carattere anaforico.
Per riassumere le intenzioni di un autore come Roy Andersson diventa necessario, in definitiva, porre in discussione una parte non marginale della società odierna. Visionare contenuti legati allo slow cinema significa anche riscrivere le coordinate del nostro tempo, tornando a fare tesoro dei momenti morti, delle pause, dei non-detti e delle lunghe sospensioni, sovrapponendo il tempo del racconto a quello dello storia.
La sapiente fotografia che risiede dietro ad ogni affresco si carica e si svuota di contenuti in maniera eloquente e mai casuale, come a voler invogliare lo spettatore (emancipato, direbbe Jacques Rancière) a dare del proprio meglio per cogliere ogni dettaglio, ma senza far mai venire meno il successivo ozio e quella comfort zone che suggellano il riposo dell'intelletto ed il distacco dal mondo.