La chiamavano 'La Pittora', ma lei rispondeva: "Vi farò vedere io cosa può fare una donna". Di certo non le mancò il coraggio, ma nonostante la sua smisurata ambizione per il successo seppe amare appassionatamente e anche amare con la dolcezza di una madre e di una figlia. Fu un'artista donna in un mondo di uomini e nel profondo Seicento non solo si affermò come persona indipendente e libera, ma impose le sue eroine bibliche dalle forme sinuose e sensuali nell'Italia della Controriforma straripante di censure.
Lei è Artemisia, figlia di Orazio Gentileschi, caravaggista virtuoso ed elegante nella pittura, dal carattere burbero, che tuttavia riconobbe il talento della figlia e non le impedì di frequentare la sua bottega, come invece gli usi del tempo avrebbero voluto. La giovane imparò in fretta, tanto che già a 17 anni firmava il suo primo capolavoro: Susanna e i Vecchioni.
La sua eroina, nuda, preda dei due rapaci guardoni non può non richiamare la vicenda personale di Artemisia, proprio in quel tempo vittima prima di uno stupro e poi del tribunale dell'Inquisizione. Se il pittore Agostino Tassi, collaboratore del padre, fu alla fine riconosciuto colpevole, la ragazza, considerata inizialmente inaffidabile, durante il processo fu costretta a interrogatori, controlli corporali e persino a torture per 'invitarla' a confessare il suo consenso alle attenzioni del collega. Lo spostamento da Roma a Firenze e un matrimonio combinato dal padre cercarono di recuperare la sua reputazione mettendola in parte al riparo dal giudizio e dallo scherno popolare, mentre le sue eroine bibliche si moltiplicarono nel tempo in un crescendo di perfezione stilistica che in pochi anni raggiunse la piena maturità.
Giuditta che mozza la testa ad Oloferne, Giaele che ficca un chiodo nella testa di Sisera, Dalida che taglia i capelli a Sansone per indebolire la sua forza sono state le bandiere che hanno fatto di Artemisia un’icona del femminismo prima ancora di essere riconosciuta come un'artista formidabile nel panorama dell'Europa del XVII secolo. Oggi i quadri de 'La Pittora' sono ricercati dai collezionisti e raggiungono somme considerevoli nelle aste internazionali. L'acquisto di una grande tela da parte della Fondazione Palazzo Blu di Pisa assume perciò il valore di un evento, di quelli a cui raramente assistiamo in Italia, in particolare nelle città di provincia.
Cristo e la Samaritana al pozzo fu dipinto a Napoli tra la fine del 1636 e il 1637, quando l'artista era al massimo della sua fama. "A Napoli, dove il viceré don Fernando Afan de Ribera duca d'Alcalà l'aveva accolta con tutti gli onori nella tarda primavera del 1630, Artemisia poté avvalersi per la prima volta delle comodità e degli agi di una bottega spaziosa, ben illuminata e con alti soffitti", racconta Francesco Solinas, Maitre de conference al Collegio di Francia, e uno dei massimi conoscitori dell'artista di cui ha scoperto il carteggio privato negli archivi di famiglia dei Marchesi Frescobaldi. "E fu a Napoli" - continua - che con i suoi particolarissimi 'fuori misura' l'artista si adeguò sempre più chiaramente alla moda dei grandi formati dilagante nelle Corti assolutiste d'Europa, dove sempre più spesso vasti teleri andavano a sostituire i ben più costosi ed elaborati arazzi".
Di questo grande dipinto la stessa Artemisia parla in due lettere indirizzate al cavalier Cassiano dal Pozzo chiedendogli di sollecitare i cardinali Barberini di sua conoscenza all'acquisto di quella e di un'altra tela con soggetti sacri. Il fatto è che la signora, che amava condurre un alto stile di vita era spesso tormentata da difficoltà economiche. In quei mesi, poi, le spese stavano aumentando a causa del prossimo matrimonio della figlia Prudenzia e questo spiega l'urgenza delle lettere all'amico e protettore Cassiano dal Pozzo. Per la verità però, non sembra che le sue accorate richieste siano state accolte e il quadro non approdò mai a Roma negli appartamenti dei Barberini, ma restò nella bottega della pittrice.
Solo dopo tre secoli è stato di nuovo individuato nei salotti del Palazzo Francavilla a Palermo, dove era arrivato alla fine del '600 attraverso un uomo d'affari di origine genovese e primo duca di Sperlinga, la cui famiglia l'ha conservato fino ad oggi. Comunque, qualunque strada abbia percorso l'opera per arrivare fino a noi, emozionante è stato il suo riconoscimento, poi confermato non solo dagli storici dell'arte, ma anche dalla firma autografa dell'artista (una 'A svolazzante nella parte più bassa della tela) scoperta durante i restauri avvenuti dopo l'acquisto da parte della Fondazione Palazzo Blu.
Anche se Cristo e la Samaritana al pozzo, considerato uno dei capolavori di Artemisia, non è uno dei suoi quadri più 'femministi', tuttavia il racconto che ci propone del passo del Vangelo di Giovanni è ancora una volta rivoluzionario. La Samaritana, vestita di un abito color giallo-oro che all'epoca distingueva le meretrici, non ascolta Cristo in maniera passiva, ma assume una posa riflessiva, dimostrando di capire ciò che Cristo, dipinto al suo stesso livello, le stava dicendo. A lei, donna e prostituta, Artemisia riconosce i mezzi intellettivi che non venivano certo attribuiti al genere femminile. La sua è una Samaritana consapevole, pronta al dialogo, assolutamente conscia di quello che sta accadendo. "Nonostante Artemisia ci restituisca una Samaritana di tale spessore", scrive Edoardo Bassetti nel volume di presentazione del dipinto appena acquistato, "diversa all'epoca era la sua comune ricezione, che la vedeva piuttosto come una donna spaurita per essere stata colta in fallo e ignara di quello che si stava verificando innanzi ai suoi occhi, come fosse un essere privo di un vero e proprio intelletto".
Se il racconto evangelico di Giovanni sulla samaritana al pozzo si riconosce già per i suoi tratti poco convenzionali, dal momento che Gesù si presenta per la prima volta come il Messia parlando ad una donna, oltretutto adultera e persino samaritana (i giudei non avevano rapporti con la popolazione pagana della Samaria), Artemisia aggiunge qualcosa di ancora più rivoluzionario dando della donna un' interpretazione originale e moderna, certo non in linea con lo spirito della Controriforma. A un Cristo riprodotto come un giovane attraente e dolce, sta di fronte una samaritana che non solo è giovane, bella e in grado di capire, ma anche sensuale nel suo lasciare intravedere i seni attraverso la generosa scollatura del corpetto. Come quasi tutte le figure femminili delle sue opere, appare una certa somiglianza con l'artista stessa, allora avvenente quarantenne. Un vezzo di Artemisia e anche uno strattagemma per promuoversi e rendersi riconoscibile nell'universo delle corti e dei collezionisti, così da diffondere la sua fama. Oltretutto, le modelle costavano molto, mentre per ritrarre se stessa bastava uno specchio. E questo per lei, sempre in bolletta e alla ricerca di soldi, era un significativo risparmio.
Come per tutti i pittori caravaggeschi, la sua fama, comunque, si perderà nella prima metà del 700, quando il Rococò prenderà il sopravvento. Ci vorrà la riscoperta del suo processo per farla uscire dall'ombra con l'aureola di femminista. Ma alla fine la 'pittora' è prevalsa sulla sua storia di donna e si è imposta nel panorama artistico internazionale. La scoperta di delicate scene religiose, come quella descritta nel 'Cristo e la Samaritana', aprono nuovi orizzonti sul talento e le qualità professionali di una donna pittrice nel XVII secolo, che senza nulla togliere all'interpretazione psicoanalitica delle sue passionali eroine, ci restituisce una visione completa della sua straordinaria pittura.