Spesso trascorrevo i miei pomeriggi in campagna, nel capannone dentro al quale mio nonno allevava conigli e galline. Fotografavo le gabbie vecchie, le lamiere storte, i guanti pieni di muffe. Poi mi facevo degli autoscatti, li salvavo sul pc. Stavo in piedi, ferma, priva di espressione: appoggiavo la digitale sopra a un serraglio, impostavo il flash e l’opzione di dieci secondi di attesa prima dello scatto. Erano foto banali, molto simili l’una alle altre, quasi identiche: io a corpo intero di fronte, profilo destro, profilo sinistro, dietro. Ne facevo una ventina. Così ogni giorno. Ancora adesso le ho sul mio pc, talvolta le riguardo. Ne ho a centinaia.

Altre volte parlavo al vuoto. Mi sedevo in un angolo del capannone, col pc in grembo, tutta intenzionata a scrivere un pezzo, ma poi mi ritrovavo a dialogare con le lamiere, con i pezzi di cielo che sbucavano dalle fessure. Fumavo in continuazione. Facevo roteare gli accendini tra le dita, con ansia, con uno strano senso di imminenza. Avrei voluto almeno una disgrazia, una cosa grossa... la fine del mondo, magari. Invece le cicale gridavano nei campi, l’erba continuava a crescere, là fuori, come sempre. Mi sembrava d’essere stata tagliata fuori dai giochi del mondo, di esserne al margine. Avrei voluto esplodere come un fuoco d’artificio, consumarmi. Ma davanti a chi? Era quella la domanda che rivolgevo al vuoto, nella solitudine. Mi ascolti? Mi ascolti? – domandavo senza aprire bocca. E così continuavo a forzare la realtà delle cose: “Mi ascolti?”, chiedevo con muta ostinazione. Giravo e rigiravo l’accendino tra le mani, la domanda nella mente: “Ma mi ascolti?”. Me ne stavo così per ore, con l’accendino in mano. Lo accendevo, lo spegnevo. Guardavo la fiamma, avevo gli occhi secchi, senza lacrime. Avrei potuto prender fuoco in un secondo. Era una litania – acceso, spento, spento, acceso – con l’accendino in mano.

Ma mi ascolti?
“Ma sì...”.
“Mi pareva non m’ascoltassi”.
“Sì che t’ascolto, ma ingrana un po’, non è che ci fosse molto da ascoltare”.
“Ecco, l’hai detto: non è che ci sia molto da ascoltare. Vedi, c’è un senso di avidità che mi prende, sempre. No, non dico sempre, a dire "sempre" sarebbe un’esagerazione. Ma vedi, come farti capire, è che vorrei spremere il tempo. Renderlo mediocre e compatto come uno straccio da cesso, poi prenderlo per le estremità e strizzarlo tutto, fargli colare tutto. M’andrebbe bene così”.
“Bene così cosa? Uno straccio strizzato?”.
“Ma perché mi fai domande di cui sai già la risposta? Perché mi chiedi spiegazioni di cui non hai bisogno?”.
“Perché ne hai bisogno tu”.
“Oh, fai l’ostetrico”.
“Lascia perdere, vuoi che t’ascolti? Dài, allora, parla!”.
“Sono scazzata... non mi vengono le parole, non ho voglia di sforzare il cervello”.
“Ah, vuoi che te lo sforzi io”.
“Che cosa?”.
“Ehh, fischia!”.
“...”.
“Allora?”.
“... io non dico che tutto debba sempre andare come uno ha in mente, ma ci vorrebbe almeno un sollievo”.
“L’hai detto”.
“Mi piacerebbe prendere ogni ora, ogni minuto, ogni secondo, insomma fare a pezzettini il tempo. E poi prendere questi pezzettini e metterli in fila l’uno dopo l’altro, come gli astanti in attesa presso gli sportelli postali. Fare a pezzi la vita, come lei fa a pezzi la materia, generando la follia dei corpi singoli. Ecco cosa mi piacerebbe fare”.
“Bah, che razza di rabbia astratta la tua. E comunque, come pensi di riuscire a fare a pezzi la vita? Dimmi”.
“Pensandoci sempre”.
“E cioè, pensando sempre alle ore, ai minuti, ai secondi che trascorrono?”.
“Sì”.
“Ma è impossibile. E comunque ne impazziresti”.
“Non vedo perché”.
“Dici che non ne impazziresti?”.
“Non mi pare...”.
“Pensaci”.
“Ma no, anzi, ne trarrei soddisfazione”.
“La soddisfazione non garantisce la sanità mentale”.
“Sì, ma, se devo dirla tutta, io temo piuttosto di impazzire a causa della condizione opposta”.
“E sarebbe?”.
“Eh, sarebbe stare lì, a fare le cose che uno di solito fa, mangiare, andare a dormire, ridere, bere un bicchiere di vino, senza pensare che la vita trascorre”.
“Ma la vita è lì, è nelle cose che fai, è nei tuoi gesti: bere, mangiare, dormire, no? La vita è nel ritmo dei tuoi gesti”.
“Col cazzo! La vita è tutta da un’altra parte!”.
“Oh, ti sei scaldata, e dove sarebbe allora?”.
“La questione non è dove sarebbe o dove non sarebbe, il punto è che non è lì. Uno mangia e crede che la propria vita stia lì, nell’atto di mangiare; oppure uno scopa e crede di trascorrere bene la propria vita scopando. Ma non è così, c’è un residuo. Mi capisci?”.
“No”.
“Ascolta, ti faccio un esempio più mondano: immagina di esserti preso una cotta per una bella ragazza, e di essere accanto a lei seduto su un dondolo, con un cono gelato in mano. È sera, è estate, vi scambiate a vicenda il cono: un po’ a te, un po’ a lei. Lei lo lecca, e ti guarda negli occhi. Tu ricambi lo sguardo, poi le guardi le spalle, il culo, le gambe. Il sangue prende a scorrere che è una meraviglia. Chi ti schioderebbe da lì? Non te ne andresti da quel dondolo per nulla al mondo, ci siamo?”.
“Eccome se ci siamo”.
“Ecco, ora immagina che alle vostre spalle ci sia un muro, e che dietro a quel muro cominci la campagna. A furia di pomiciare è venuta la notte. Di notte la campagna verde diventa soltanto terra nera, e in quella terra nera alle vostre spalle c’è una creatura che vi osserva. Quella creatura è li per te, ti vuole. Ma tu sei lì sul dondolo, sotto le luci soffuse di un lampioncino, tra le mani porno della ragazza. Tu stai sprofondando nel cuscino del dondolo, nella carne della ragazza. E non ti accorgi nemmeno della creatura nel buio, dietro di te”.
“E meno male...”.
“Meno male un cazzo!”.
“Ma scusa, chi è questa creatura, cos’è? Cosa vuole da me?”.
“È qualcosa che ti aspetta, tu sei atteso da lei. Sei l’atteso. È lì che il tempo va in frantumi, capisci? È così che capita a me: qualsiasi cosa io stia facendo, so che da qualche parte, vicino, c’è qualcuno che mi sta guardando, che è lì per me, che mi sta aspettando. E qualsiasi cosa io stia facendo in quel momento, ecco, quella cosa può allora dirsi salva. Io mi lavo i denti ma sono per la creatura. Scopo col mio ragazzo ma esisto per la creatura che mi aspetta. Giro per casa seminuda col l’accendino in mano, e al culmine della spossatezza, nel mezzo di questo mese di merda, mi ricordo d’un tratto della creatura, e mi salvo”.
“Non mi convinci, ragazza mia”.
“Non ti voglio mica convincere”.
“Sai che ti dico? Che le tue sono tutte storie, noiosaggini. La fai grossa perché vuoi sedurmi, lo so. È sempre la medesima solfa”.
“Va bene, ma dimmi: chi voglio sedurre?”.
“Ma è chiaro: la tua immagine riflessa nello schermo del pc”.