Viviamo un tempo buio, e non solo per via di ciò che accade nel mondo e ciò che minaccia di accadere. Viviamo in un tempo buio perché i lumi della cultura si sono affievoliti, e la loro luce raggiunge a malapena pochi fortunati. Dal momento in cui abbiamo cominciato a mercificarla, a farne un ‘attrattore’ per vacanzieri distratti, a ridurre l’arte e la bellezza a mera estetica, a mortificare la conoscenza e la critica.
In questo tempo oscuro, avanza anche l’inverno del politicamente corretto, della riduzione di ogni complessità a schematismi semplici, binari, della demonizzazione/rimozione di ciò che non appare conforme al pensiero dominante.
A ciò purtroppo non si sottrae neanche l’arte, di cui davvero sembra essersi perso ogni valore che non sia di mercato. Anche se certo ciò non vale sempre e dappertutto, neanche nel mondo globalizzato in cui viviamo, indiscutibilmente è, però, vero in quella parte di mondo che chiamiamo ‘occidente’ (un’espressione ormai un po’ priva di senso), così come in quella ‘occidentalizzata’.
Ci sono idee, pensieri, talvolta anche soltanto semplici atteggiamenti, che funzionano come virus: basta immetterli nel corpo della società, magari dargli una spintarella iniziale, e poi si propagano da soli. E così è per quell’insieme di ‘posture culturali’ che vanno complessivamente sotto il nome di “politicamente corretto”; dalle rivendicazioni gender al climate change, assistiamo alla trasformazione di problematiche sociali e politiche in veri e propri ‘format’, pacchetti di pensiero conforme per il consumo di massa, la cui messa in discussione è considerata sacrilega.
E come si diceva, sfortunatamente questo meccanismo virale ha raggiunto anche il mondo dell’arte, a partire ovviamente dalle sue istituzioni. Musei e grandi eventi sono sempre più ‘sensibili’ a questo approccio, e riprendono queste tematiche - secondo la declinazione implicita del relativo format - nella tematizzazione di mostre e manifestazioni, nella convinzione che ciò sia non solo più giusto, ma anche più utile al fine di ottenere buona stampa e fondi pubblici. Si è insomma creato un viluppo perverso, in cui istituzioni amministrative e politiche, istituzioni artistiche e culturali, sistema mediatico, agiscono ciascuno alimentando la logica di questa spirale, e l’uno spinge l’altro a perpetuarla. Inevitabilmente, ciò discende a cascata via via verso curatori, critici ed artisti, portando a compimento il processo e chiudendo il cerchio.
L’adesione al politicamente corretto, dunque, implica per certi versi un atteggiamento ‘modaiolo’, ma presenta caratteristiche assai più profonde. Al di là del fatto che sposare il pensiero dominante può ovviamente essere un buon viatico per il successo, all’opposto rifiutarne i presupposti può condannare all’ostracismo, all’emarginazione, alla ripulsa sociale.
Ne consegue che l’intero mondo dell’arte - che è ormai completamente consumer oriented - vi si adegui, vi si adagi, e vada laddove ci si aspetta che vada. L’aspetto più preoccupante, però, è che questo conformismo non è frutto soltanto di un calcolo opportunistico, ma è sempre più prodotto da una sincera adesione culturale, dalla diffusa convinzione di essere così dal lato giusto della storia.
La figura dell’artista capace non solo e non tanto di ‘opporsi’ al pensiero dominante, ma soprattutto capace di spingere il proprio sguardo oltre la superficie, di cogliere e mostrare ciò che ancora non risulta visibile ai più, sembra scomparsa dall’orizzonte. E se anche l’arte precipita nel buio, seppure sfavillante di lustrini, davvero ci stiamo avvicinando alla mezzanotte culturale. E la nemesi finale è che le nuove generazioni finiscano col percepire l’arte come una ‘merce’ tra le tante, contro cui scagliare un’altra merce (warholianamente una lattina di zuppa...) pour épater le bourgeoise, in nome d’un altro caposaldo del politicamente corretto; e senza nemmeno rendersi conto d’essere - con quel gesto - divenuti a loro volta un dentello dell’ingranaggio, la mise en scène del dissenso come atto di supremo conformismo.