Nelle aziende il processo di innovazione è fondamentale per una ragione ineluttabile: non soccombere, non perire.
Innovare è sinonimo di vivere: l’innovazione porta cariche di fecondità, sprigiona energia, allontana dalla routine che ingessa le sinapsi, consente di puntare alla longevità. Capace di innovare vuol dire infatti longevo: le aziende innovative hanno lunga vita, sopravvivono ai fortunali che imperversano nei mercati, resistono alle tempeste che scuotono le esistenze e le organizzazioni sociali.
Per questo, chi desidera una prospettiva di lungo periodo sa che deve attivare ogni strategia utile ad allenare alla novità, che significa essere pronti all’incertezza, alla sorpresa e alla meraviglia. Le organizzazioni incapaci di innovare sono destinate all’estinzione, non hanno futuro, scorgono i propri bilanci sotterrati nei cimiteri in cui giacciono sepolti i libri contabili delle società defunte. Per questo, innoviamo in continuazione ogni cellula del nostro corpo, come ogni ufficio e ogni prodotto.
Innovare per sopravvivere
Nella parola "innovare" troviamo il nuovo.
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinnovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.
Così si chiude il Purgatorio: Dante e Beatrice sono pronti a lasciare la seconda cantica e ad accostarsi ai cieli del Paradiso, laddove tutto è luce e velocità, dove tutto accade alla velocità della luce. Quel diventare come piante novelle rinovellate di novella fronda è l’essenza dell’innovazione: capacità di assumere la forma e la consistenza di germogli, virgulti, boccioli pronti a sbocciare.
Le piante novelle diventano rese nuove da una fronda novella, cioè rinovellata, impreziosita dagli innesti dell’innovazione. Innovare è anche rinnovare, l’innovazione è anche rinnovamento. Questa parola così prossima al fiorire ha radici antiche. Il rizoma da cui la pianta dell’innovazione trae forza è il latino di provenienza indoeuropea nŏvu(m), che significava nuovo. In tutte le lingue che traggono linfa dal lessico indoeuropeo si trovano parole con suoni affini al nŏvus: in greco antico néos, in sanscrito navas, in ittita newas, in antico slavo novŭ, in lituano naũjas, in alto tedesco antico niuwi (in inglese new), in irlandese nua.
Nell’innovazione percepiamo i suoni delle diverse lingue che tintinnano nelle nostre orecchie: per innovare abbiamo bisogno di confrontare elementi diversi, entrare nei caleidoscopi delle esistenze e osservare abbacinati i pezzetti di carta colorata e luminescente che si dispongono di fronte ai nostri occhi.
Migliorare per diventare più buoni
Quando miglioriamo diventiamo più buoni.
Sì perché il verbo migliorare deriva dal latino tardo meliorāre, derivato a sua volta di mĕlĭor, mĕliōre(m) al caso accusativo, cioè ‘più buono’, comparativo di bŏnus. Per dire più buono i romani antichi usavano questa forma: mĕlĭor, da cui l’avverbio meglio in italiano. È interessante il fatto che la stessa radice di mĕlĭor la ritroviamo nell’aggettivo latino mŭltus, ‘molto’. E qui rimaniamo sorpresi. Per migliorare dobbiamo anche moltiplicare. Nel moltiplicare troviamo alcune tracce del più buono. Secondo gli studiosi di statistica, “nella quantità c’è la qualità”.
Sta a noi imparare a trovare gli equilibri del tanto per cercare il meglio. Sta a noi apprendere come far girare in modo opportuno le due parti del caleidoscopio dal quale osserviamo i panorami che ci circondano, in modo che quei frammenti colorati ci regalino sensazioni di benessere.
Sta ancora a noi apprendere come conoscere e riconoscere la caratteristica principe dell’Ulisse con il quale entriamo in relazione nelle nostre agorà e dell’Ulisse che dimora in noi. Ulisse era definito da Omero polutropos, cioè in grado di volgersi in molte direzioni, in grado di appoggiare lo sguardo un po’ di qua e un po’ di là, in grado di utilizzare al meglio la plasticità del proprio cervello. Polutropos, tradotto con “dal multiforme ingegno”, cioè dalla mente agile, dal pensiero vivace, versatile. Incline al viaggio e al nuovo. Curioso. Indomito. Desideroso di esplorare la rugosità della superficie.
Scrive Calvino, alla fine della quinta delle sue Lezioni Americane, dedicata alla molteplicità:
Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.
Ecco ciascuna e ciascuno di noi è così, come Ulisse: smanioso di sperimentare, di approcciare il miglioramento, di esplorare mondi sconosciuti alla ricerca di chissà cosa, per sfuggire – dice Calvino – “all’arbitrarietà dell’esistenza”.
Correggere per trovare la rotta
“Se sbaglio mi corrigerete”. Dopo il nuntio vobis, dopo l‘habemus papam, con un italiano stentato, il neo pontefice Karol Wojtyla ha pronunciato una frase che è rimasta tra i ricordi di molte persone. In quella sera del 16 ottobre del 1978, il verbo correggere ha avuto una risonanza globale.
L’errore nella pronuncia era in realtà una forma di ipercorrettismo dell’arcivescovo di Cracovia che conosceva bene il latino. Il verbo italiano correggere deriva infatti dal latino corrĭgĕre, che significava ‘raddrizzare’, ‘mettere sulla retta via’, a sua volta dal verbo rĕgĕre ‘dirigere’, ‘governare’, anticipato dal prefisso co(n)-. Propriamente rĕgĕre voleva dire ‘guidare in linea retta’, ‘indirizzare’.
Dentro di sé contiene la materia della rettitudine, dell’essere retti, del non commettere errori, del procedere senza sbandamenti né oscillazioni, tema arduo per gli esseri umani che in alcune fasi della loro vita sono invece proprio tentati dall’errore parente dell’errare. Il correggere è riportare dunque sulla retta, invitando a non avanzare a zig zag, nella consapevolezza comunque che per arrivare da qui a lì, nelle barche a vela così simili alle esistenze terrene, è tutto un alternarsi di virate e strambate, con il rischio fortissimo di scuffiare.
Riformare e trasformare per cogliere il bello
Quando innoviamo, riformiamo e trasformiamo. Riformiamo, cioè curiamo la ripetizione della forma.
Trasformiamo e quindi modifichiamo la forma originaria in un’altra forma, diversa, non congruente, evoluta. La parola forma indica l’aspetto con cui un oggetto si presenta esteriormente. Il termine fōrma(m) è di origine latina, a sua volta connesso al greco antico morphḗ, secondo alcuni studiosi passato attraverso l’etrusco alla lingua dei romani.
La parola morphḗ usata ad Atene e dintorni è ricca di suggestioni. Voleva dire sia forma, figura, sia aspetto, sembianza sia bellezza del corpo. Ed è proprio su questa idea di bellezza, di armonia, di piacevolezza che vale la pena di lasciar volteggiare la nostra mente. Quando riformiamo ci occupiamo della nuova bellezza delle cose. Quando trasformiamo passiamo da una bellezza a un’altra bellezza. Quando formiamo gestiamo il bello delle cose che, per i greci, si sa, era anche il buono.
Rovesciare per cercare un nuovo senso
A volte le situazioni si rovesciano all’improvviso, finendo a testa in giù, apparendo sottosopra senza che esista una ragione che regga. Il rovesciamento è una sovversione, una sommossa, una sollevazione che porta a un assetto completamente diverso dai precedenti.
Il bicchiere che si rovescia facendo spandere il proprio contenuto su tavolo. Ecco il rovesciamento: la forma dell’acqua è adattata al suo contenitore. Se il contenitore è rovesciato, l’acqua si spande. Spiega Alberto Nocentini nel suo dizionario L’etimologico: il verbo rovesciare deriva latino volgare reversiāre per il latino classico reversāre, che voleva dire ‘rivoltare’, ‘girare in senso contrario’, a sua volta dal verbo versāre, ‘rigirare’, frequentativo di vertĕre nel significato di ‘girare’, ‘volgere’, ‘rovesciare’ anteposto dal prefisso re-.
Da quel verbo vertĕre, è derivato il sostantivo vertice, che è il punto più elevato, ma da quel verbo originano anche le persone introverse e quelle estroverse, coloro che trovano energia scrutando dentro di sé e quelle che si attivano meglio nella relazione con gli altri. Le une e le altre hanno doti differenti, reagiscono in modo appropriato ai rovesci della vita.