Werner Herzog e Klaus Kinski hanno costituito una delle coppie regista-attore più iconiche e controverse del secolo scorso, tra grandi litigi, pellicole monumentali ed imprese titaniche: Fitzcarraldo è, in qualche misura, la summa di tutti i punti appena elencati. Il film, presentato al Festival di Cannes nel 1982, è il frutto di un intenso, quando non disperato, lavoro di oltre due anni, protrattosi tra mille difficoltà, cambi attoriali in corsa, montagne logistiche pressoché invalicabili ed un baratro del fallimento pericolosamente vicino.
Le vicende di Brian Sweeny Fitzgerald (Klaus Kinski), conosciuto da tutti come Fitzcarraldo a causa di un difetto di pronuncia delle popolazioni locali, si sviluppano in piena Amazzonia, oscillando tra Manaus e la sperduta Iquitos. Il personaggio si distingue subito dalla massa in quanto sognatore, idealista e profondamente innamorato dei propri desideri, oltre che dell’amata Molly (Claudia Cardinale). Fitzcarraldo è, infatti, una figura imprenditoriale molto estroversa, con grandi progetti avviati e mai conclusi, come la ferrovia transandina, ed un business consolidato e redditizio come quello del ghiaccio, da lui prodotto su larga scala.
Ma è anche un appassionato di opera lirica ed in particolare del tenore italiano Enrico Caruso, da lui profondamente venerato al punto da fornirgli lo spunto per una nuovo investimento: costruire un teatro nella remota Iquitos e far esibire proprio Caruso nella serata inaugurale. Questo aspetto ci permette anche di cogliere la cornice temporale degli eventi, situati tra il finire dell’800 e gli inizi del ‘900.
Il progetto, più che ambizioso, trova una possibile fonte economica nel commercio del caucciù, nel quale Fitzcarraldo – dietro suggerimento e sovvenzione di Molly – decide di lanciarsi acquistando una imbarcazione, arruolando un equipaggio e tentando un’impresa di dimensioni mitologiche, al fine di accedere ad un’area particolarmente ricca di materie prime: risalire il torrente Pachitea e, nel punto più prossimo al fiume Ucayali, trasportare la nave (del peso di trecento tonnellate) oltre la collina che separa i due corsi.
Ciò che la trama non racconta è l’insieme dei retroscena che la pellicola porta dietro con sé. Una gestazione molto complicata e lunga, legata non soltanto ad attori che hanno abbandonato il film a causa delle problematiche presenti in corso d’opera – come Jason Robards, Mick Jagger e Mario Adorf, coinvolti nelle riprese in un primo momento – ma anche a fattori ambientali e logistici.
La storia, ispirata alla figura del peruviano Carlos Fermín Fitzcarrald, muove a partire da presupposti molto diversi: il peso della nave nel film è decuplicato rispetto all’impresa originaria, fattore che sposta l’operazione nel terreno di una vera e propria sfida tecnologico-ingegneristica.
Tanto che Herzog si circonda di veri e propri specialisti, che studiano un articolato sistema al fine di trainare il mezzo fluviale per una salita molto ripida. Come riportato nel documentario Kinski, il mio nemico più caro, presentato a Cannes nel 1999, le reazioni degli attori furono assolutamente genuine. L’adrenalina e l’eccitazione collettiva del momento è percepibile, si può quasi toccare con mano in alcune scene.
L’impresa è reale, autentica, un vero prodigio, così come le sequenze girate nel fiume, con la nave finita in balia della corrente. Nonostante l’utilizzo di modellini per alcune riprese, in molte altre inquadrature si possono vedere impatti veri, di una violenza inaudita. I gravi danni sia allo scafo che al (poco) personale presente sull’imbarcazione, come il profondo taglio alla mano riportato dal direttore della fotografia, sono presenti nel citato documentario. Molti altri aneddoti, oltre che vari spunti e riflessioni, sono presenti anche nel libro La conquista dell'inutile, scritto a partire dal diario tenuto da Herzog in occasione dei due lunghi anni di riprese.
La pellicola vede pure una folta presenza di comparse indios, che aiutano il protagonista nei suoi intenti dopo averlo individuato come il messia indicato dal proprio credo. Anche se ben lontano da tale connotazione, è pur vero che Fitzcarraldo veste sempre un completo bianco (medesimo cromatismo dell’imbarcazione, oltretutto), sinonimo di eleganza ma anche di quella purezza d’animo che lo fa emergere come vincitore morale nei confronti degli spietati imprenditori di Manaus, incapaci di cogliere il grande disegno che risiede dietro a tale impresa e che, perciò, non risultano disposti a sovvenzionarlo.
Il film è un vero capolavoro e permette ad Herzog di aggiudicarsi il premio per la miglior regia a Cannes. Nonostante i molti problemi incontrati per strada il regista bavarese non ha mai perso il desiderio di andare avanti e portare a compimento l’opera, anche mettendo a repentaglio la propria salute psicofisica. Non è sbagliato in tal senso tracciare un fil rouge con altre pietre miliari del cinema come Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, un lungometraggio giunto nelle sale grazie soltanto alla infinita forza di volontà di chi lo ha strutturato e plasmato, anche a costo di ridursi in precarie condizioni di salute fisica e mentale.
Coppola che ha spesso indicato un altro grande titolo di Herzog quale fonte di ispirazione proprio per Apocalypse Now (assieme, ovviamente, al romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad): Aguirre, furore di Dio. Pellicola, quest’ultima, che permise a Herzog di tastare con mano quei terreni così evocativi e selvaggi poi parzialmente riammirati anche in Fitzcarraldo, anticipandolo di dieci anni. Un vero e proprio gioco di scatole cinesi, capace di amalgamare realtà, finzione filmica e mondi distanti, in un gioco di rimandi impliciti ed espliciti tra le inesplorate Ande peruviane e l’inferno bellico vietnamita.
In definitiva, Fitzcarraldo non tratta nient’altro che della volontà ed del desiderio di raggiungere ad ogni costo il proprio sogno, utilizzando il denaro come mezzo e non come fine. Werner Herzog rende l’amico-nemico Klaus Kinski un alter ego con cui patteggiare al fine di non sfociare nella follia: se l’attore tedesco è infatti il volto della irascibilità e della volubilità quasi schizofrenica, Herzog rappresenta un diverso tipo di pazzia, più legata alle mastodontiche idee prodotte che non a qualche raptus di rabbia.
Proprio per questo, nel già citato documentario Herzog stesso ha confessato come il loro rapporto umano e lavorativo sia stato “una perfetta combinazione di pazzi capace di spingersi fin dove è possibile, due masse critiche che al contatto formano una miscela pericolosa, qualcosa di esplosivo”.
Energia, pazzia, stimolo, trasparenza, vita: questi sono i termini chiave per comprendere il profondo rapporto di stima-odio tra queste due grandi personalità del cinema europeo e mondiale, capaci di portare la Settima Arte in territori inesplorati in termini di dedizione, oltre che di geografia. La famosa frase pronunciata da Molly nel film (“chi sogna può muovere le montagne”) assume significati molto profondi se visti da questa prospettiva, con una perfetta crasi di finzione diegetica e sforzo collettivo extradiegetico al fine di superare quel “pendio insignificante” (sic.), decisivo per le sorti di Fitzcarraldo e di Herzog.