Per percepire meglio cosa siano i sentimenti, puoi osservarli dal punto di vista di quella che identifichiamo con il loro opposto: la ragione. Cioè il ragionamento, la razionalità, il logos. La ragione ti propone scene tratteggiate con linee rette, perimetri definiti, colori ben distesi sulla tela della vita, come in un dipinto di Piet Mondrian.
Quanto più ti distanzi dalla sponda della ratio, tanto più ti introduci nella dimora dei sentimenti, abitazione dalle pareti morbide che conosce solo gli sfumati, i mescolamenti, i paradossi e le meraviglie, talvolta affini al caos come nel dripping di Jackson Pollock.
I sentimenti tengono insieme gli opposti, ti lasciano fare incetta di punti di domanda e di tanti non so, ti spiazzano se non ti alleni a gestirli ogni giorno, ti portano in paradiso e ti mettono in croce nel tempo di un amen.
Puoi sentire il sentimento, lo puoi ascoltare, udire, origliare, laddove i suoni, le melodie, i rintocchi della tua anima si adagiano sullo spartito strappato che appartiene transitoriamente a tutti gli umani.
Puoi vedere il sentimento, quando dallo sguardo dagli occhi scuri dell’innamorata o dell’innamorato si irradia una luce che risplende fino nel cuore della persona amata e lo fa sobbalzare.
Puoi annusare il sentimento, perché di profumi è colmo lo spazio dei ricordi che ti rendono l’oggi in parte noto e in parte da esplorare, un po’ deja-vu e un po’ occasione di scoperta, un po’ memoria e un po’ sorpresa.
Puoi gustare il sentimento, quando la bocca si riempie di sapori piacevoli o si secca di fronte al deserto del tuo dolore più intimo.
Puoi toccarlo questo sentimento, sì, perché il corpo conta, perché la pelle esalta le sensazioni, perché i mortali premono e tirano le emozioni, le lambiscono, le tastano, le carezzano, le sfregano, le maneggiano come il vasaio con la creta che con i polpastrelli avverte il piacere vertiginoso del dare forma a un nuovo oggetto dalla materia grezza.
Nella direzione dei sentimenti
Il sentimento è insieme il soggetto, l’oggetto e il complemento di modo del sentire. Il sentimento sente, tu senti il sentimento, tu senti nella maniera del sentire.
La parola sentimento appartiene a una famiglia numerosa: le sono sorelle le parole sensazione, da cui l’aggettivo sensazionale, qualcosa che è davvero meraviglioso, favoloso, clamoroso; sensibile, cioè intenso e delicato ma al contempo corporeo, tangibile, significativo; sensitivo, detto della persona che riesce a percepire più di altre la profondità che si nasconde negli esseri umani; sentore, sostantivo che si deposita nei giardini dell’incertezza e dell’insicurezza, portandoci il sapore della percezione, dell’intuizione, del chissà. Sensibilità, quindi, parola delicata e struggente, è la sorella che ha i tratti somatici più simili a quelli del sentimento.
Cugini del sentimento sono i verbi acconsentire, con il significato di ‘accogliere’, ‘permettere’, ‘accordare’, dissentire, che usi quando sei in disaccordo, quando obietti a un’opinione, quando osteggi un’idea, e risentire, che nella forma intransitiva di risentirsi vuol dire ‘offendersi’, ‘indignarsi’, ‘seccarsi’, verbo caro ai permalosi e a chi si inalbera trascinando nel tempo il proprio imbronciato sdegno.
Tutti questi vocaboli hanno come mamma il verbo sentire, in latino sentīre, cioè ‘percepire’, ‘notare’, ‘intendere’, ‘ritenere’, ‘giudicare’. Quel verbo latino si confronta con l’antico alto tedesco sin che vuol dire ‘senso’, direzione’ e ‘inclinazione’, ‘facoltà mentale’ e con l’antico irlandese sét, ‘cammino’, che inducono lo studioso di etimologie Alberto Nocentini a presupporre un significato primitivo di ‘dirigersi’, da cui ‘fare attenzione’, ‘pensare a’.
Ecco tu nel sentire ti dirigi da un’altra parte, a un luogo fuori di te, a un altrove che ti consente scoperta e quindi apprendimento, evoluzione, cambiamento. Con il sentire, con il sentire profondo, assegni significato alle cose che ti succedono, anche alle più inattese, a quelle che ti sconvolgono l’esistenza e che non riusciresti a spiegare con la sola ragione ma che acquisiscono senso, appunto, quando sono sentite e non ragionate.
Per sentire devi muoverti, essere disponibile a ruotare, a cambiare posizione e punto di osservazione della realtà, a spostarti, qualche volta facendo un passo avanti, qualche volta di lato, qualche altra volta indietro, per percepire l’ignoto o il percorso già compiuto.
Sentire è quindi affine a senso, non solo nell’accezione dello stato d’animo o del significato, ma anche di direzione, verso, via, strada, cammino. Già senso in quanto cammino che gli esseri umani vanno a esplorare, con una bussola in mano o con una monetina per far scegliere al caso di fronte ai bivi che talvolta il transito terrestre propone. E lì, di fronte a quei bivi, talvolta il sentire si affratella con il senno, di cui è comunque parente, talvolta no.
Le emozioni ti muovono dentro
Se il sentire è collegato anche alla direzione, alla strada, al cammino, anche l’emozione lo è. L’emozione testimonia proprio un muoversi da dentro a fuori. Nel latino classico emovēre significava ‘smuovere’, ‘scuotere’, da movēre ‘muovere’, con il prefisso e(x)-, che dal significato concreto di ‘movimento’, ‘agitazione’ ha acquisito l’attuale significato psicologico, intimo, legato alle sensazioni che provano gli esseri umani.
Le emozioni sono talvolta scossoni, mani e braccia robuste che scrollano le tue certezze, ti sbatacchiano di qua e di là, ti squassano a tua insaputa e contro la tua volontà, tu che pensavi di essere quercia e ti ritrovi a dimenarti nel vuoto appeso a fragili fili di continuità.
Le emozioni scuotono, dunque, ma anche spingono, stimolano, spronano a uscire dal certo per approcciare l’ignoto, incitano a esplorare per non lasciare nulla di intentato, pungolano a uscire dallo stato di confort per approdare a un non so da scoprire ogni giorno con stupore.
Le emozioni agitano, scombussolano, turbano e talvolta commuovono appunto, laddove il muovere è un muovere cum-, cioè con. Con qualcun altro che non sei tu, qualcuno di cui intersechi la rotta, qualcuno che ti trasforma almeno un po’, qualcuno che ti fa partecipare alla sua essenza coinvolgendoti nel suo destino.
La trepidazione ti calpesta
In preda alla trepidazione, resti in bilico, sospeso tra il timore e la speranza. La trepidazione è il sentimento dell’ondeggiare tra lo speriamo di no e lo speriamo di sì, è insieme spavento e smania, è paura ma anche impazienza.
La persona trepida è inquieta, ha l’animo che ribolle, vive in una condizione di ansia dell’attesa che fa battere il cuore nell’incertezza.
Il latino trepĭdus risale alla radice indoeuropea trep-, che indica il calpestio, lo scalpiccio, i piedi che battono per terra facendo rumore. Omero ed Esiodo avevano usato il verbo trapéō per indicare il movimento delle gambe quando si pigia l’uva nel tino.
L’intrepido, il contrario del trepido, in effetti è ardimentoso, impavido, imperterrito fino alla spavalderia. La persona in trepidazione invece può percepire i propri pensieri dentro quel tino dell’esistenza che si chiama qui-e-ora e che è proteso verso un domani carico di non-so.
Quell’antica radice del resto la troviamo anche in un altro verbo greco, il verbo trepo, che voleva dire ‘torco’, ‘volgo’, ‘dirigo’, ‘rivolto’.
Essere in trepidazione è un po’ stare così, essere pronti a una rivolta interiore, in attesa di una torsione, di un rivolgimento, di uno smuoversi che le persone trepide attendono ma che non sanno se e in che modo arriverà.
L’affetto che ti consente di fare
“Quasi tutti hanno bisogno di più calore e più affetto di quanto gli altri sono capaci di dare.” Amos Oz ti scaglia addosso questa frase, chissà poi se ne è vero il contenuto, chissà se vale anche per te, chissà se in quel “quasi tutti” tu in realtà non ci sei. Eppure questa considerazione è in grado di penetrare nella sensazione di insoddisfazione che pervade talvolta gli esseri umani: un abbraccio non dato o non ricevuto, un sorriso mancante, un desiderio inespresso diventano finestre aperte sulla malinconia. L’affetto meno intenso dell’amore e più controllato della passione, l’affetto è un trasporto con il freno a mano tirato, è un sentimento avvolgente e morbido che coincide spesso con il voler bene. In latino affectus -ūs voleva dire ‘stato d’animo’, ‘sentimento’, derivato da afficĕre ‘influire’, ‘mettere in condizione’, da făcĕre ‘fare’ col pref. ad-.
L’affetto è un fare verso qualcosa, un sentimento duraturo poco propenso a lasciarsi turbare dalle tempeste del cuore. “Sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna”, scriveva nei Sepolcri Ugo Foscolo, ricordandoci che nel momento del commiato dalla vita potremo essere ricordati dai nostri cari, e quindi continuare una vita dopo la morte, solo se avremo lasciato “eredità d’affetti”, briciole morbide del nostro transito, gesti di bontà, frammenti di verità disseminati lungo il cammino.
Questione di feeling
Già, il sentimento in inglese è il feeling, quell’intensa corrente di simpatia che mette in relazione due persone. Feeling dal verbo to feel, che vuol dire ‘sentire’ proprio nel senso di sentimento. In inglese antico, felan, di cui feel è antenato, aveva il significato di ‘toccare’, di ‘avere un’esperienza sensoriale’. L’origine non è certa: qualche studioso collega la parola a una radice indoeuropea pal- o pel- che voleva dire toccare, spingere, colpire.
Ecco, il feeling ha quindi ha a che fare con il contatto, con la pelle che si tocca. È un’emozione collegata alla percezione dei sensi, una pulsazione che connette il fisico prima della mente. Il corpo in genere è vero, dà segnali non equivoci, racconta una storia prima che il cervello riesca a codificarla.
Percepire per raccogliere
Non pensare, non ragionare, prova a percepire. Cosa senti? Ecco, lo spostamento dal cervello al cuore al corpo. Per fare in modo che il logos lasci lo spazio alle percezioni, che sono modi per raccogliere, per avvolgere, per trattenere. Il verbo percepire è una formazione latina di origine indoeuropea. In latino percĭpĕre voleva dire ‘raccogliere’, ‘ricevere’; ‘sentire’, ‘notare’, da capĕre ‘prendere’ col pref. per-.
La percezione è quindi una raccolta, una ricezione, una greppia dove mettere al riparo un po’ di sentimenti e qualche rastrellata di emozioni. Da quel verbo capĕre, abbiamo ottenuto in italiano l’aggettivo capiente, che ci indica la dimensione e la conseguente utilità di un recipiente. Ma da lì abbiamo ereditato anche il verbo capire, che significa ‘intendere’, ‘comprendere’ ma che ci rimanda l’idea di includere, racchiudere, abbracciare, così da tenere un po’ vicino a noi, dentro di noi. Il capire non è quindi solo un azione della testa ma anche il frutto di una percezione.
La prima impressione conta
“Non hai una seconda opportunità per fare una buona prima impressione”.
È così, nella vita spesso è buona solo la prima. Ti giochi una relazione nei primi secondi di contatto, nello sguardo rivolto o non rivolto, nella stretta di mano, nel profumo che avverti quando ti avvicini per baciare le gote di un’altra persona. La prima impressione è quella che conta, tutto il resto discende dal primo istante, che è attimo, che è momento e cioè movimento.
L’impressione è un’impronta, sono i polpastrelli che si accostano alla superficie della vita di un altro essere umano e ne percepiscono il profilo, qualche traccia di sorriso, qualche segno di gioia scoppiata nel tempo, qualche cicatrice di dolore che rimane in evidenza.
La parola impressione deriva dal latino impressĭo –ōnis, vocabolo che significava ‘impronta’, ‘atto d’imprimere’, derivato a sua volta dal participio passato del verbo imprĭmĕre, cioè ‘calcare’, ‘imprimere’. In francese stampare si dice proprio imprimer, la stampante è l’imprimante. L’impressione è in definitiva una stampa che trovi nel cervello e nel cuore, una stampa che ricevi dalle persone che incontri e che regali a loro nello stesso momento. L’impressione è uno scambio, non sempre simmetrico.
Il verbo latino imprĭmĕre deriva a sua volta da prĕmĕre, che voleva dire ‘schiacciare’, ‘pigiare’ e anche ‘incalzare’.
L’impressione è una pressione in-, una pressione dentro di te, che ti lascia una traccia, anche se non vuoi, anche se pensi che non sia avvenuto.