La solitudine è come una lente d’ingrandimento: se sei solo e stai bene, stai benissimo, se sei solo e stai male, stai malissimo.
(Giacomo Leopardi)
Esterno giorno. Assolata mattinata d’estate al parco giochi centrale della città. Fa caldo, fa molto caldo ma l’ombra regalata dagli alti alberi che circondano l’area permette ai bimbi di giocare felici nonostante il pensiero rivolto ai bagni al mare che faranno solo nel pomeriggio. L’attesa fugge via tra voli sull’altalena, puntate al dindalò, arrampicate su corde e scale di legno, e braccia alzate al cielo mentre scendono lo scivolo. Tutto questo colore, tutta questa allegria, coinvolge anche i genitori attenti a guardare i propri piccoli che socializzano dopo mesi di pandemia. Il ritorno alla normalità ha i colori dell’estate e il suono dei loro allegri schiamazzi.
Mentre sono tranquillamente seduta su una panchina all’ombra lungo il vialetto che circonda il parco giochi però, un’immagine mi coglie impreparata. Noto una bimbetta. Avrà avuto cinque o sei anni. Non credo di più. Ha i capelli sciolti e un bel completino maglietta e pantaloncino. Niente di strano. Uguale a tutte le altre bimbe nel parco. Una cosa però è diversa. Tra le mani tiene un cellulare. E lo stesso si penserà che in fondo non ci sia nulla di strano, considerato l’alto numero di bambini proprietari di aggeggi simili. Forse farà delle foto, ho pensato. Invece la cosa veramente strana e che mi ha portato a scrivere una riflessione su uno stato d’animo come è quello generato dalla solitudine, è che la bambina guardava lo schermo mentre scendeva dallo scivolo. Quindi niente braccia alzate, niente urla di gioia. Solo una impassibile figura in movimento con gli occhi fissi sui video di youtube.
Ho immediatamente pensato che quella bambina non stesse godendo in nessun modo la sua mattinata di giochi perché era assorbita dai pixel. Niente la distraeva, né gli altri bambini, né il resto. No l’altalena, no il dindalò, né le corde e le scale per le arrampicate, niente cavalcate su finti destrieri di plastica. Nemmeno la sottile brezza che muoveva le foglie degli alberi regalando momenti di fresco piacere. La sua concentrazione la estraniava dal mondo intorno. Finita la discesa dallo scivolo, ha provato a salire una scala per l’arrampicata sempre senza poggiare il cellulare. Con una mano reggeva lo schermo e con l’altra cercava di salire. In suo soccorso sono arrivati altri bambini che l’hanno aiutata a salire e poi si sono seduti intorno a lei a guardare i video. Bene, fine dei giochi. Un arcipelago di piccole isolette, vicine ma distanti.
Mi sono chiesta se fosse giusto raccontare questa storia e ancora di più se fosse il caso di annoiare i lettori con una riflessione sulla solitudine. Ma se ho deciso di scriverla è perché mi dispiace per quella bambina che potrebbe essere mia figlia e perché mi piacerebbe capire cosa stia accadendo al nostro mondo. Ho pensato che quella bimba fosse sola nonostante tutti quei bambini intorno a lei perché davanti agli schermi ci siamo solo noi con le nostre molte insicurezze e poche certezze. Gli schermi che ci portiamo dietro ci aiutano a mettere tra noi e il mondo reale una barriera che a volte, crediamo, possa salvarci in qualche modo, che ci permetta di esprimerci come se non fossimo proprio noi in quel momento. Ci mascheriamo dietro la tastiera.
Perdiamo un po’ noi stessi perché ci va bene così. Questo è ciò che penso accada a noi adulti ma a quella bambina cosa succede? Cosa impara dai video che non possa imparare dalla vita reale che si svolge intorno a lei in un parco giochi dove i suoi coetanei socializzano e imparano il conflitto e la mediazione? Parlo da semplice genitore, preoccupata da quello che vedo accadere intorno a me. La chiave forse è quella di recuperare e di far recuperare ai nostri figli il rapporto con gli altri dopo due anni in cui abbiamo passato il tempo ad evitarci a causa del Covid-19. È il confronto con la vita reale che muove la costruzione del pensiero critico, la condivisione di idee, parole e azioni. E se lasciassimo loro del tempo per vivere il mondo reale senza intermediazioni di sorta? Molti psicoterapeuti consigliano di aspettare prima di regalare un telefono ai bambini perché il loro mondo deve essere fatto di contatto e di scambio di idee, reali e non virtuali. La solitudine, però, ha anche una faccia positiva, così come la malinconia e la noia. Questo è vero quando restare soli con noi stessi mette in moto riflessioni e considerazioni che nel caos generale restano sopite in un angolino del nostro cervello. Chi scrive, per esempio, sa che la solitudine concorre alla formazione di un pensiero, di un filo logico o di una storia. Chi crea arte in generale ha spesso bisogno di allontanarsi dalla folla per esprimere la propria creatività. Questo però è molto diverso dall’isolarsi anche nei momenti di gioco.
Durante le ultime settimane ho sperimentato un altro tipo di solitudine che è la solitudine delle idee. Confrontarsi con gli altri e certificare che quasi più nessuno abbia la tua stessa visione della vita, dei rapporti umani, della socialità, della politica e di molto altro ti fa sentire veramente solo. Ritrovarsi da soli con le proprie idee porta a riflessioni molto profonde sul fatto che, probabilmente, l’epoca in cui vivi non è quella giusta per te. Non ti riconosci completamente nonostante il forte spirito d’adattamento con la consapevolezza che una macchina del tempo non sia stata ancora inventata. L’idea di aspirare ad un mondo utopico, e che quindi porta a credere che prima o poi si arriverà ad una società dove sperimentare una convivenza felice, ti ancora a pensieri fantastici ma ti allontana dalla realtà. Sentirsi un pesce fuor d’acqua ti mette a disagio. Forse lo stesso disagio che prova quella bambina quando, uscita dal suo mondo virtuale, si ritrova nella realtà a confrontarsi con il mondo che le gira intorno.
Ciò capita anche a me quando mi guardo intorno e rifletto sul fatto che resto spesso in silenzio a rimuginare sulla considerazione che di gente che vuole sentire e leggere queste menate ne sia rimasta veramente poca!