Per chi si rechi in visita al CERN di Ginevra sarà per lo meno inusuale ritrovarsi al cospetto del dono fatto anni fa dal governo Indiano al Consiglio Europeo per la Ricerca Nucleare: la statua di Śiva Nataraja, il Signore o re (raja) della danza (nata).
Parte della trimurti indù, il dio incarna, com’è ampiamente diffuso, il principio distruttore insito nella Natura cui costantemente si accompagna il principio generativo all’interno di un sistema di bilanciamento ritmico che è stato assunto come metafora perfetta della danza delle particelle subatomiche e, secondo la definizione del celebre fisico Fritjof Capra, come l’essenza stessa della materia inorganica. Impossibile rendere conto dell’inesauribile simbologia che accompagna il dio. Come tutti i simboli, Śiva resta al di là dell’esatta spiegazione del raziocinio e invoca al contrario la comprensione intima che si addice all’esperienza.
Il mito narra che mentre si trovava nella foresta di Chidambaram, uno dei luoghi celebrati come “centri” del mondo, Śiva dovette difendersi da coloro che con canti magici avevano intenzione di ucciderlo. Fu allora che il dio ingaggiò una danza sacra con cui sconfisse i suoi nemici schiacciando con il piede destro il nano Apasmāra, simbolo dell’illusoria ignoranza che attanaglia il mondo.
Per fare ciò che il dio ha fatto, vincendo la pesante gravità incarnata dal piccolo essere deforme, dovremmo scoprire la chiave dello straordinario equilibrio con cui Śiva viene da secoli effigiato.
Il dio si regge sulla gamba destra grazie al perfetto allineamento con il proprio asse. La sua centratura, però, è tutt’altro che facile ed è il prodotto di un sistema dinamico, di un movimento continuamente rinnovato, nonostante la posa scultorea che immortala il dio offra all’osservatore l’illusione della staticità.
La gamba con cui egli trova l’equilibrio, che è la stessa con cui schiaccia il “senza memoria” Apasmāra, non è rigida, bensì è flessa in quello che il lessico coreutico occidentale codifica come plié, un piegamento dinamico in cui discendere equivale per molti versi a salire. Con l’inflessibile flessibilità del ballerino, Śiva conficca in tal modo, in un punto preciso posto al di sotto del proprio centro, addirittura l’origine stessa di tutti i mali.
Trovando quindi il compromesso con il peso della gravità al di sotto di lui, il dio può liberare la gamba sinistra che viene a flettersi in una torsione, incrociandosi a mezz’aria con la gamba di terra. A questo punto, com’è facile intuire, il busto del dio non può che controbilanciare la traiettoria delle gambe opponendovisi in direzione contraria, restando in tal modo “fermo” al centro, fedele al suo asse, mentre la cintura fluente che vola alla sua sinistra tradisce l’idea di un danzatore che volteggia restando immobile.
Non ha due braccia Śiva, bensì quattro e la loro collocazione intorno al tronco centrale del dio colpisce a causa della loro vistosa e inaspettata asimmetria. Con la mano destra del braccio posteriore sollevato all’altezza delle spalle il dio tiene un tamburo-clessidra, uno strumento che allude alla creazione del tempo e del ritmo vitale che costantemente costruisce e porta avanti la generazione e la combinazione degli elementi. Nella posizione diametralmente opposta, la mano del braccio posteriore sinistro reca invece la fiamma distruttrice del dio devastatore che è destinata a disfare quanto con l’altra mano il dio-natura ha creato. Vita e morte si potrebbe chiosare, i due principi insiti nella Natura cui niente di organico e inorganico sfugge nell’universo. Eppure, dev’esserci molto di più nella posa del dio. Egli, infatti, assai enigmaticamente, sfoggia un indecifrabile sorriso e ciò lo distingue nettamente dalla comunità degli uomini che, immersi essi stessi nel fluire degli eventi naturali, sono lontani dall’esibire la medesima serenità di fronte alla distruzione posta in essere dalla Natura.
Śiva sorride perché conosce evidentemente un segreto. La mano destra del suo braccio anteriore si appresta infatti a rassicurare colui il quale avesse affrettatamente concluso che il gioco della natura non è altro che distruzione. Il suo gesto, che pare fermare la forza centripeta del moto in dentro della gamba sollevata, esprime una precisa esortazione per l’osservatore: “niente paura”.
Proprio al di sotto della stessa mano rassicurante, la corrispondente mano sinistra indica infatti la direzione verso il basso in cui si trova il piede che si è liberato dalle forze della terra grazie al piede che in quelle stesse forze ha trovato il suo equilibrio canalizzando tutto il peso dell’universo verso il centro della terra. “State tranquilli, ci si può liberare”, sembra insomma voler rassicurare il dio.
La distruzione di Śiva Nataraja non è da intendere come un principio di morte che contraddice la vita in quanto tendenza autolesiva. Il suo gesto distruttivo è qualcosa di paradossalmente simile a quello che i filosofi antichi dell’alchimia chiamavano opus contra naturam, un movimento antiorario, verso il dentro, tradizionalmente atto a fare spazio alla nuova creazione, un movimento non spontaneo per cui serve l’arte e la disciplina del danzatore destinato a intrattenere una tensione costante con il suo moto contrario, il moto orario verso il “fuori”, più immediato e naturale.
Se Śiva si limitasse solo a costruire il ritmo del tempo e della generazione, tutta la natura si sbilancerebbe dissipandosi. La distruzione messa prontamente in atto dal dio è preludio invece alla generazione stessa ed è per questo che Śiva nel mito è cosparso della cenere che ha ricavato dalla combustione necessaria di tutto ciò che deve essere bruciato per poter predisporre la creazione del nuovo. Il dio deve aver conosciuto insomma assai profondamente il bene e il male, il dolore, l’annientamento e la via di salvezza che per sfidare la morte ha infine trovato nella danza.
Bendato un giorno inaspettatamente da una dea, egli è piombato nell’oscurità. Grazie a questa un terzo occhio è nato in lui, l’occhio rivolto verso l’interno, così come centinaia di milioni di anni fa dall’età oscura dell’universo infinite stelle sono state generate a dare inizio alla vita pulsante.
Non solo sulla terra si trova il dio, ma anche nel cosmo lontanissimo. I suoi capelli sono quindi lunghissime sinuosità simmetriche ai lati del capo, atte a raccogliere le acque del Gange celeste frenando la furia dell’impatto della forza che viene dalle profondità del cielo vertiginose e insondabili quanto quelle della terra. Da essi sbocciano fiori e serpenti.
Non solo fuori, non solo dentro, ma anche all’interno e nelle infinite direzioni dello spazio, dicono le braccia e le gambe del dio. La sua distruzione gli permette di sorridere perché non è dato riempire di nuova acqua se non coppe che prima siano state svuotate. Il processo potrebbe richiedere un esercizio ed una costanza infaticabili, molte cose potrebbero sfuggire alla vista distrutte dall’illusione del tempo in spazi di cui si ignorano i confini perché e finché non se ne conosce il centro.
Ma intanto il dio sorride mentre danza. “Niente paura” egli bisbiglia a chi sa carpire il suo segreto.